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Concorso Teatro in classe

Dopo l’ottimo esito dell’edizione conclusa, proseguirà Teatro in classe, il concorso promosso da Emilia Romagna Teatro Fondazione che offre agli studenti l’opportunità di vestire per un giorno i panni di critici teatrali. Le classi seguiranno la stagione dell’Arena del Sole scrivendo per alcuni titoli in cartellone una recensione dello spettacolo e una rubrica di approfondimento che collega i temi trattati dalla messa in scena con l’attualità politica, sociale, culturale, di costume…
I testi verranno pubblicati sul sito del teatro Arena del Sole. Le recensioni e le rubriche saranno valutate da una giuria di esperti che assegnerà un premio agli elaborati ritenuti migliori nel corso di una cerimonia di premiazione al termine della stagione teatrale. I recensori, inoltre, saranno chiamati a partecipare agli incontri del ciclo Conversando di Teatro con le compagnie ospiti in cartellone, per affiancare il conduttore e offrire il proprio contributo alla discussione intorno allo spettacolo.

Recensioni

Lorca sogna Shakespeare in una notte di mezza estate

a cura di Classe 4N, Liceo Sabin, Bologna
(coordinamento prof.ssa Marina Melotti)

Recensione
“Lorca sogna shakspeare in una notte di mezza estate”. Opera scritta dal drammaturgo Davide Carnevali che ha tratto ispirazione da diversi testi inglesi e spagnoli. È uno spettacolo rivisto che modifica e unisce la storia di “Romeo e Giulietta” e “Il sogno di una notte di mezza estate” di Shakespeare, cercando di interpretarli dal punto di vista di Lorca, con qualche modifica divertente di Davide Carnevali.
Il fine dello spettacolo era quello di far interagire il pubblico, invitando a salire alcuni spettatori sul palco per recitare come se fossero attori autentici. L’opera infatti si basa sui dubbi di Lorca sul teatro, la finzione e la realtà. Davide Carnevali usa le parole di Shakespeare nelle opere “Il pubblico” e “Commedia senza titolo” e in questa recita la bravura di Carnevali sta nel mettere in relazione questo commento con le famose opere drammatiche di Shakespeare, sdrammatizzate dalla sua simpatia. Tutta l’opera s’incentra nel giocare con il pubblico facendo leva sui loro dubbi tra finzione e realtà. Lo spettacolo comincia con un monologo iniziale, che tratta di una serie di esempi nei quali attraverso gesti fa intendere di avere un oggetto in mano pur non avendolo realmente. Questo concetto viene ribadito molto durante lo spettacolo, non solo con gli oggetti, ma anche con i luoghi e con le persone presenti nel pubblico, non lasciando intendere chiaramente se fossero attori o meno. In successione al prologo viene enunciata una famosa citazione dello scrittore Federico Garcia Lorca, interpretata da un attore. La citazione in questione pone il quesito appunto sullo scambio di ruolo tra attore e spettatore. “Cosa succederebbe se lo spettatore, venuto a teatro per assistere solo allo spettacolo, salisse sul palco a recitare?” In effetti, le persone vanno a teatro per rifugiarsi lontano dalla realtà, per trovare un luogo dove poter immedesimarsi in una storia senza assumerne le conseguenze.
La finzione non nuoce sulla vita reale mentre la realtà ovviamente ha un impatto, positivo o negativo che sia, sulla vita quotidiana. Le persone tendono spesso, se non tutti i giorni, a rifugiarsi nella finzione per smettere di pensare…per esempio oltre che recarsi a teatro anche giocare ai videogiochi, guardare serie televisive, ma anche navigare sui social Network ci può aiutare a dimenticare i nostri problemi. Sono tutte azioni che ci fanno staccare dalla realtà e dalle angustie che la vita ci riserva continuamente. L’idea citata all’inizio, quindi, quella dello scambio dei ruoli, è un idea originale e piuttosto insolita, soprattutto per le persone che generalmente non frequentano il teatro. Peccato che alla fine si è dedotto che la maggior parte degli spettatori saliti sul palco fossero studenti di accademie teatrali. In effetti, il fatto di interagire con il pubblico dà allo spettatore la sensazione di essere coinvolto nella scena, però se parte del pubblico coinvolto è costituito da persone che vogliono recitare allora forse lo spettacolo non susciterà le stesse emozioni. Lo spettacolo continua anche facendo molti riferimenti alle opere Shakespeariane, per esempio si sofferma sull’argomento della casualità dell’amore: ispirandosi a “Il sogno di una notte di mezza estate “ Puck, un folletto che ha un ruolo fondamentale dell’opera, deve impossessarsi di un miracoloso fiore, il quale trattiene un succo che se versato sugli occhi di un essere addormentato, al suo risveglio diventerà completamente innamorato del primo essere vivente che gli appare di fronte. Oberon affida a Puck questo compito perché Titania non vuole cedere lui un paggetto, perciò il suo obbiettivo è quello che ella venga colpita dall’incantesimo così che non abbia più tra i pensieri il paggetto. Puck, sotto richiesta di Oberon, però decide di versare il succo sugli occhi di Demetrio, al fine di farlo innamorare di Elena, per far sì che non ci fossero stati più problemi. Nonostante diverse complicazioni, operate da Puck, Lisandro si innamora di Elena casualmente. Alla fine Elena e Demetrio diventano innamorati come anche Lisandro e Ermia. Qui emerge il caso: come nella vicenda l’amore per Elena da parte di Lisandro è stato casuale, anche nello spettacolo che interagisce col pubblico il caso rappresenta una figura importante. Come possono venir selezionate casualmente persone che vogliono recitare e amano stare al centro dell’attenzione, possono invitare persone che non amano nessuna di queste due cose. Tutto è in mano al caso. Nei discorsi seguenti il pubblico ha partecipato molto volentieri e senza ritirarsi, e ha recitato con divertimento e serenità. Questo per dimostrare che il teatro non è solo finzione, ma anche realtà.

Rubrica
Internet è un centro di ricerche che fa parte della nostra vita quotidiana. Molte volte in esso girano news perlopiù vere, ma che nella maggior parte dei casi il giornale fa sembrare false. Questi scoop che vengono pubblicati e sembrano veri sono fatti per il business delle fake news, espressamente per il guadagno economico. Come, ad esempio, la pubblicazione di false notizie di morte delle persone più conosciute induce i curiosi ad acquistare un giornale o a seguire un sito aumentando il numero dei lettori.
Inoltre su internet ci sono utenti che chattano con altri che non conoscono, e altri che si fingono qualcun’altro. Questo è il caso dei profili fake che sono gestiti da persone che non vogliono far conoscere la loro vere identità per paura di non essere accettate, di conseguenza si nascondono dietro quella di qualcun’altro. Le persone non si nascondono solo dietro uno schermo perché anche nella realtà l’essere umano tende a cambiare atteggiamento a seconda dei rapporti che ha. Questo in molti casi significa nascondere se stessi mettendosi una maschera, recitando una parte anche nella vita.

 

Hillbrowfication

a cura di Classe 4DL , Istituto Enrico Mattei, San Lazzaro (BO)
(coordinamento prof.ssa Daniela Zani)

Recensione
Buio, a poco a poco il palco si popola. Luci: una calda voce avvolge il pubblico mentre delle danze strabilianti conquistano la scena…Questo è l’inizio di Hillbrowfication, lo spettacolo che ha ammaliato il pubblico dell’Arena del sole il 4 e il 5 dicembre. Con la direzione della regista argentina Constanza Macras e della coreografa Lisa Estarás un gruppo di 23 ragazzi, dai 7 ai 23 anni, si sono trasformati in performers di grande livello, in un esperimento di teatro sociale che si radica nella township di Hillbrow a Johannesburg in Sudafrica. Questo gruppo eterogeneo, dove le distinzioni di nazionalità e genere sono sapientemente annullate dai costumi e dalla coreografia, restituisce a noi spettatori la realtà di quanto l’arte possa essere inclusiva e veicolo per un mondo migliore. L’emarginazione e la xenofobia, che si vivono ogni giorno nelle township, diventano lo sfondo della narrazione del superamento della Barriera che divide i ricchi dai poveri, i detentori delle ricchezze del paese e i migranti in fuga. Voci recitanti, canzoni, musica delle percussioni, danze, incredibili costumi: tutto concorre e si contamina per comunicarci lo svolgersi di questo scontro/incontro tra diversi e indicarci una strada da percorrere. C’è un intento morale nel riportare performers, e spettatori, in contatto col corpo, con le emozioni, gli istinti, recuperando gesti e canti delle diverse tradizioni e mescolandole sapientemente. I valori corporei che emergono eclissano superficialità e formalità, modificano un assetto mentale artificioso e ci propongono un orizzonte di uguaglianza nella diversità. A questo concorre anche l’attenzione estrema ai costumi, che sono vari, ricchi di stili e colori sapientemente mescolati: dalle calzemaglie vagamente zebrate, ai pizzi colorati, alle maglie strappate, alle maschere, alle parrucche, alle camicie, ai trucchi, agli scambi di vestiario …lo spettacolo è un tripudio di forme sui corpi, anch’essi differenti, magri, grassi, alti, bassi, infantili, adulti, femminili, maschili. In questa incredibile varietà, che ci riporta alla ricchezza dell’individualità, gli stereotipi di genere si annullano e possiamo ammirare come un muscoloso giovane con un vestitino di pizzo rosso che si muove meravigliosamente non sia l’esagerazione di nulla, ma solo… se stesso. La bellezza della differenza non può non colpirci: attraverso la danza i performers mettono a nudo corpi e anime, e noi usciamo dallo spettacolo pensando a parole come rinascita e salvezza.

Rubrica
C’è una barriera tra i ballerini e chi non sa ballare, come i muri creati tra i bianchi e i neri: in Hillbrowfication la situazione tipica dell’Apartheid è ribaltata. Le persone di colore sono salvate perché, a differenza dei bianchi che le osservano, sanno muoversi, fare musica e cantare. E tutto meravigliosamente. Lo spettacolo di Costanza Macras ci propone la barriera, sociale, ma anche fisica, fatta di muri e filo spinato, che tutti noi possiamo vedere tra i quartieri Sudafricani, e ne fa una metafora del mondo diviso tra migranti e dominatori. Nella comunità sudafricana post-apartheid, ancora oggi la discriminazione tra i ricchi, non solo bianchi, e i neri poveri è fortemente percepibile: ci sono muri e barriere a protezione dei quartieri ricchi, in forte contrapposizione con la realtà delle township, i quartieri poveri, degradati, tra cui Hillbrow. Qui la criminalità, la violenza e la sporcizia erano sovrane prima che, grazie al progetto artistico di Macras e del Gorki Theater di Berlino, il luogo diventasse altro: uno straordinario laboratorio di esperienze diverse. Siamo tutti consapevoli che le barriere non si trovano solamente nelle realtà sudafricane, ma noi spettatori, dopo aver visto lo straordinario spettacolo Hillbrowfication, ci sentiamo grati che esistano artiste visionarie come Macras e la sua coreografa Lili Estarás che avviano progetti con l’obiettivo di abbatterle. L’arte performativa, nei suoi diversi aspetti coreografici, strumentali, canori e scenografici, si mostra in tutta la sua potenza di arte sociale, strumento di presa di coscienza, di creatività potente, salvifica. La narrazione coreografica e musicale, coadiuvata da racconti recitati, ci trasporta nella storia della Barriera e dei migranti che la distruggono, mostrandoci i passaggi verso un’unione finale che passa attraverso momenti di scontro e di guerra. Lo scioglimento della narrazione in una danza dove tutti si ritrovano e si completano nelle loro diversità, di età, di genere, di provenienza, di cultura, lascia il pubblico partecipe dell’abbraccio finale che chiude lo spettacolo.  Con la presa di coscienza dei punti d’incontro tra le due parti della Barriera, e la conseguente riappacificazione, viene indicato a tutti noi il luogo privilegiato dell’arte come ri-soluzione dei conflitti e percorso di speranza.

Quando la vita ti viene a trovare


 a cura di Classe 5P, Liceo Scientifico Enrico Fermi, Bologna
(coordinamento Cristina Girardi)

Recensione
Giovedì 12 dicembre 2019 è stato messo in scena lo spettacolo “Quando la vita ti viene a trovare”. Due rinomati attori, Enzo Vetrano e Stefano Randisi, hanno condiviso il palco, incarnando rispettivamente Lucrezio e Seneca, nel dialogo immaginario scritto da Ivano Dionigi, illustre latinista ed ex rettore dell’Università di Bologna. Al dialogo tra questi due grandi autori della classicità, che Dionigi riconosce come quelli che più lo hanno colpito durante il suo percorso di studi, è affidato il compito di spiegare due concezioni antitetiche dell’uomo che, con maggiore o minore successo, caratterizzano la nostra tradizione.
Vetrano e Randisi hanno interpretato con grande carisma i due autori, hanno dato una voce a due punti di vista rivali, in un dialogo tra filosofia epicurea e filosofia stoica che va avanti senza soluzione di continuità, in un fitto scambio di battute e osservazioni. Il confronto, dall’inizio alla fine, resta vivo e vivace, destinato a non cambiare la prospettiva dei due protagonisti in merito alla propria dottrina né a mutare la visione di ciascuno di essi a proposito del pensiero dell’altro. Trovata interessante ed efficace per esporre due dottrine filosofiche tanto care alla latinità. Mentre si sottolineano le differenze e i concetti fondanti del pensiero di Lucrezio e di Seneca, tante domande occupano la scena, su temi cari all’uomo di ogni tempo: la vera natura delle cose, da un lato, e delle parole, dall’altro, la posizione dell’uomo nel mondo e nella storia, la paura e il suo “mercato”, le responsabilità della politica, la verità sull’amore, il senso della morte, la felicità. La trama sembra assente, la scenografia scarna: l’attenzione dell’osservatore non può che soffermarsi sulle parole dei protagonisti, inframmezzate da brevi sequenze musicali, e messe in risalto sullo scenario non ben definito di un calmo mare notturno, lievemente increspato. Quel calmo mare notturno infonde una dolce tranquillità su questo dialogo surreale, la tranquillità, forse, che si conquista con la filosofia. La voce sommessa dell’attore che interpreta Lucrezio sottolinea in modo particolare questa mirabile conquista nel saggio epicureo: seguace del motto lathe biosas, “vivi nascosto”, egli ha preso le distanze da ogni genere di impegno pubblico e civile, fonte, per Epicuro, di brama insaziabile di gloria e ricchezze. Al contrario, Seneca, precettore e primo ministro dell’imperatore Nerone, si presenta con una voce più chiara e sicura. Lo spettacolo si conclude con una bizzarra partita a scacchi tra i due contendenti: a Lucrezio, antecedente in termini temporali di Seneca, spetta la prima mossa, ma egli si limita a piazzare le pedine sulla scacchiera. L’altro, invece, sposta e rimuove alcune figure fino a giungere alla vittoria: probabile allusione alla grande fortuna di cui l’opera di Seneca godette nei secoli successivi. Il povero Lucrezio, invece, contrario all’esistenza di qualunque forma di vita ultraterrena e quindi notevolmente anticristiano, venne rifiutato e quasi dimenticato. Eppure, a lui dobbiamo riconoscere il vigore di un pensiero alternativo, che fronteggia con mente serena “quell’ostinato dualismo filosofico che separando il mondo terrestre da quello celeste spezzava in due la vita dell’universo” (C. Marchesi).
Ciò che lo spettacolo vuole insegnare è che i classici tornano a parlare ogni volta, ai giovani e più in generale agli uomini, con una grande forza: non ci impongono risposte, ma ci invitano ad abitare le domande, ricordandoci così ciò che tutti noi eravamo e ciò che potremmo essere.

Gli studenti Federico Andreoli, Simone Barbera, Chiara Isacco, Teresa Tonelli

Rubrica
LE CHIAVI DELLA FELICITÀ
È incredibile come un apparente salto nell’antichità possa rivelarsi un profondo tuffo nel presente: è questa la forza dei classici, dai quali sempre traiamo riflessioni nuove su temi senza tempo. Lucrezio e Seneca, i protagonisti dello spettacolo, magistralmente interpretati da Vetrano e Randisi, nel loro dualismo filosofico e morale ci hanno consentito di ragionare su come approcciarci alla società odierna. In particolare, la celebre contrapposizione tra l’otium, professato dall’epicureismo di Lucrezio, e il negotium, privilegiato dallo stoico Seneca, e dal civis romanus in generale, fa emergere interrogativi fondamentali per chi si prepara ad entrare nella società attiva: per migliorare la condizione di noi stessi e dell’umanità è più efficace partecipare concretamente alla vita politica o dedicarsi allo studio militante e alla divulgazione della cultura? Seppur giungendovi per vie diverse, i due protagonisti hanno un obiettivo comune: la ricerca della felicità, che si consegue tramite l’allontanamento e il controllo delle passioni, portatrici di dolore e turbamento. Alla radice di molti mali sta, per Lucrezio come per Seneca, il timor, soprattutto il timor mortis. Questa paura per il “dubbioso passo” riguarda noi non meno degli antichi, credenti e non, e non è forse banale ricordarlo a un presente in cui il progresso della tecnica allontana la morte dal quotidiano, la riduce a tabù, e dimentica spesso che l’uomo è un ospite della vita. Eppure, dinanzi all’ineluttabilità della morte Lucrezio non vacilla: “squaderna l’universo” e spiega che nulla si dissolve mai nel nulla, in canti di morte da cui “erompe l’inno perpetuo della vita” (C. Marchesi).
Accade così che, mentre i due autori dialogano, la vita “ci viene a cercare”: forse proprio per aiutarci a trovare
un incentivo per vivere il nostro presente con intensità, forza propositiva e responsabilità.

Gli studenti Elena Bacci, Giovanni Cavazza, Eleonora Pini e Simone Trambaiolo

 

 

Kobane Calling On Stage

 a cura di Classe 4A, Liceo Scientifico Enrico Fermi, Bologna 
(coordinamento prof. Daniela Salcoacci)

Recensione
Cosa significa mettersi in gioco? Può significare impegnarsi a superare una sfida individuale, oppure porsi al servizio di una comunità, per fare luce su una situazione critica e sensibilizzare l’opinione pubblica. Zerocalcare ci è riuscito. Ha fatto le valigie per ben due volte e, contro il parere di tutti, ha deciso di andare incontro ad una realtà di cui si sa e si parla poco. Questa realtà racconta la storia del popolo curdo che, senza una terra, lotta da oltre quarant’anni fra violenza e oppressione per affermare la propria identità. Calcare, con la sua curiosità di cogliere di persona questa tragedia, ha deciso di rischiare, ritrovandosi presto nel bel mezzo di gruppi combattenti e colpi di mitra dell’ISIS. Continua però a non focalizzare completamente il motivo che lo ha spinto a viaggiare tra Turchia, Siria e Iraq: “Perché sono qui?”. Le avventure di Zerocalcare sono raccontate in prima persona nel fumetto Kobane Calling pubblicato nel 2015, a cui è ispirata la rappresentazione teatrale Kobane Calling on stage, portata sul palco da Nicola Zavagli. Si tratta di una messa in scena fedele al libro, con numerosi attori che riempiono lo spazio del palco, mentre sullo sfondo vengono proiettati alcuni disegni tratti dal fumetto, che aiutano lo spettatore ad orientarsi nella vicenda. Rispondendo al suo intento comunicativo, Zerocalcare racconta ciò che sperimenta in prima persona: in scena lo vediamo entusiasta e intento nella sua missione umanitaria di portare medicinali e conforti nei campi profughi, ma anche in viaggio attraverso le città devastate dalla guerra, pieno di dubbi e paure, accompagnato da volontari locali come Ezel, che fungerà per lui e i suoi amici da guida e da interprete. Brevi ma lucide spiegazioni intervallano il racconto, fornendo al pubblico informazioni sulla geografia del Rojava, sull’origine dei gruppi combattenti e sulle infiltrazioni ISIS in quei luoghi. Particolarmente accattivante, soprattutto per un pubblico giovane, è la scelta di riproporre fedelmente in scena lo stile narrativo del fumetto, condotto con il filtro dell’umorismo e potenziato dall’utilizzo del gergo romanesco, mentre personaggi cari all’immaginario dell’autore, il Mammut, George Pig e l’Armadillo, visualizzano la coscienza del protagonista dialogando con lui. La scelta del racconto leggero, per quanto coinvolgente, sfuma inevitabilmente verso un tono più riflessivo dal momento in cui Calcare arriva a Kobane, città simbolo della resistenza curda e “museo a cielo aperto della vergogna dell’umanità”. Gli attori, a questo punto, scendono dal palco; alcuni si recano a guardare i resti di Kobane dall’alto, mentre un soldato, passando tra il pubblico, scandisce una frase che suona come una denuncia pesantissima: “Come un ferito non si cura con le carezze, Kobane non si ricostruisce con le parole”. Ed è proprio alla vista di Kobane che Zerocalcare focalizza finalmente il senso del suo essere lì: difendere l’esperienza del Rojava, che indica una via di convivenza pacifica e democratica tra popoli, significa anche scoprire che a capo di tutto c’è “il cuore”, simbolo di quell’umanità che ci lega tutti, senza barriere né confini. Fra gli applausi del pubblico, viene proiettata la foto di Cappuccio Rosso, ragazza guerrigliera morta combattendo, a ribadire in modo inequivocabile la concretezza e la drammatica forza documentaria di tutta la rappresentazione.

Rubrica
Da anni si sente parlare delle vicende del popolo curdo. Chiusi nelle nostre abitudini, siamo indotti da un’informazione spesso distorta a sottovalutarne la portata. Lo spettacolo ‘Kobane Calling on stage’ ci ha permesso di assumere un altro punto di vista e di capire che dietro ai conflitti e alle voci politiche ci sono persone vere, che lottano ogni giorno per rivendicare il diritto alla propria libertà. Le storie della gente comune e delle loro vite stravolte dalla guerra vengono portate sulla scena con un’energia che non lascia spazio all’indifferenza. Ciò che più ci ha colpito è il ruolo centrale delle donne, protagoniste di un’organizzazione sociale retta da un confederalismo democratico improntato sulla convivenza etnica e religiosa. Persino ragazze di appena sedici anni, con una forza che travalica le violenze subite, lasciano le famiglie per unirsi alla lotta per la libertà e diventano la base di questo esperimento mai realizzato da nessuna società cosiddetta civile. In questo contesto, se Calcare e i suoi compagni, con le loro paure, incarnano il nostro attaccamento alla routine, allo stesso tempo con il loro viaggio simboleggiano il desiderio di mettersi in gioco provando a uscire dalle proprie abitudini a costo di rinunciare alle comodità a cui siamo fin troppo legati. Alla luce della visione dello spettacolo, ci interroghiamo in prima persona: quanti di noi giovani occidentali sarebbero in grado di trovare lo stesso coraggio dei protagonisti per sostenere da vicino chi combatte per la libertà?

 

 

 

I giganti della montagna

 
a cura di
Classe 4O, Liceo Scientifico Enrico Fermi, Bologna 
(coordinamento prof.ssa Camilla Spina)

Recensione
“I sogni, la musica, la preghiera, l’amore… tutto l’infinito che è negli uomini, lei lo troverà dentro e intorno a questa villa”, o meglio in questo teatro.  Si apre il sipario, siamo ancora nella platea? Oppure ci troviamo dietro le quinte? E questi folli? Parlano con me? Con noi? Oppure recitano tra loro?
Ma sono queste le domande che ha senso porsi? Lo spettacolo si sviluppa attorno a molteplici quesiti e altrettante riflessioni, forse sono troppe cose da concentrare su un solo palco, ed ecco che il teatro si fa platea, un riflesso sbiadito della mezza circonferenza dell’Arena del sole.
È decadente, ma imponente e solenne, testimone di ricordi, spettacoli e recite, confinate al passato, un passato di cui nessuno si cura più, tanto che non ha senso nemmeno che venga del tutto distrutto.
Tale la scelta del regista Gabriele Lavia che con destrezza mette in scena il testamento incompiuto di Pirandello: I Giganti della Montagna. In una scenografia cupa, notturna e un po’ sognante, più di una decina di personaggi colorati, urlano, ballano, suonano e si agitano, portando lo spettatore in una vorticosa scena, in una storia dis-ordinaria, in un limbo molto sottile tra sogno e realtà. Gabriele Lavia, nelle vesti del mago Cotrone, si fa intermediario tra tre realtà distinte: quella degli “Scalognati” cui appartiene in quanto mago, quella della compagnia della contessa cui appartiene in qualità di attore, e infine quella dello spettatore di cui fa parte come uomo.  Non è un caso che il nome completo del personaggio interpretato da Lavia sia: mago-Cotrone-Pirandello, d’altronde Pirandello è il drammaturgo che più di tutti si occupa di annientare la “parete” che separa il palcoscenico dalla platea e l’attore dal pubblico. La realizzazione di quest’opera teatrale ha posto diverse sfide al regista, la più difficile delle  quali è la gestione di un finale incompleto. Ma perché fornire un finale alla storia?
Le riflessioni e i messaggi che il regista-attore vuole comunicare allo spettatore trascendono il contenuto della trama, la scelta di Lavia è di non inventare un finale diverso per l’opera, che rimane  sospesa tra i colori e i suoni della scenografia. La scenografia che per tutta la durata dello spettacolo ha definito l’indefinibile: “l’Oltre”, un luogo magico, l’unico posto in cui l’arte può ancora vivere, come afferma Cotrone: “l’opera deve restare  tra i fantasmi, l’opera non può vivere in mezzo agli uomini, perché non la capirebbero”.
È necessario un “Oltre”per immergersi nel mondo dell’arte e della fantasia?
Noi come pubblico, ma soprattutto come uomini, siamo capaci di non lasciarci impressionare dai fantasmi ed accettarle in una quotidianità che altrimenti sarebbe solo grigia e triste razionalità?

 Gli studenti Benaglia Stefano, Gabrielli Giulia, Ghibellini Viola, Guerrini Marco, Lucas Isabela, Pedretti Matteo, Quarantotto Sara, Tocco Samuele, Zorzan Arianna.

 

Rubrica
Il confine tra realtà e finzione, delineato dalla figura dell’attore, è labile, come dimostrato nello spettacolo “I giganti della montagna” dai membri della Compagnia della Contessa, i quali non riescono più a distinguere il mondo reale dalla recita. Ciò ci ha fatto ragionare su come questo confine si stia sempre più assottigliando nell’era digitale in cui viviamo, perché a volte attraverso i social ci immergiamo in una realtà virtuale, in cui con un semplice click entriamo in contatto con persone e cose da ogni parti del mondo, ma non solo, in questo vortice di immagini e notizie fatichiamo spesso a riconoscere ciò che è invenzione e ciò che non lo è proprio come i compagni della Contessa. Se gli Scalognati sono la massima rappresentazione della favola, personaggi emarginati dal resto degli uomini, “che non hanno nulla ma possiedono tutto” e la Compagnia il ponte tra vita vera e fantasia, i Giganti sono invece l’incarnazione della concretezza e della razionalità, in quanto si rifiutano di partecipare allo spettacolo della Contessa, che ritengono una perdita di tempo. Chi sono però oggi questi giganti? Secondo noi simboleggiano coloro che si distaccano da tutto ciò che arricchisce l’anima, da tutto ciò che è arte, concentrandosi solo sugli aspetti concreti e materiali della vita, perdendo la facoltà di immaginare e dare vita ai propri sogni. Nella società odierna, il benessere economico e il successo professionale rischiano di diventare, per molti, l’unico scopo da perseguire senza il quale la propria esistenza perde significato.

Gli studenti Prete Giovanni, Rigola Giulia, Sensi Niccolò,  Anna

 

 

 

Antigone

a cura di Classe 2B Liceo Scientifico Enrico Fermi, Bologna
(coordinamento prof.ssa Clementina Marsico)

l nuovo adattamento teatrale dell’opera di Sofocle allestito da Massimiliano Civica si apre su una scena completamente spoglia. La luce scandisce il tempo: luce, buio, luce. Sul fondo della scena appaiono due donne e tre uomini. Ancora buio: si sentono dei passi, delle urla, dei rumori confusi. È la guerra, raccontata attraverso una narrazione sonora. I riflettori si accendono di nuovo, riappaiono i personaggi. Sulla sinistra giace il corpo di Polinice: indossa una camicia nera, è un fascista. Creonte (Oscar De Summa) e la guardia (Francesco Rotelli) vestono un’uniforme militare e portano al collo un fazzoletto rosso: sono partigiani. Antigone e Ismene (Monica Piseddu e Monica Demuru) indossano abiti eleganti, di colore chiaro; la loro purezza e giovinezza (soprattutto quella di Antigone, che ha sulla spalla un grande fiore bianco) sembrano essere messe in risalto rispetto a tutti gli altri personaggi. In netto contrasto con loro il Coro (Marcello Sambati), che porta uno smoking nero. La scelta dei costumi (comunque minimalisti: alcuni attori interpretano diversi personaggi, variando semplici elementi del loro abbigliamento) ci porta lontani dal V secolo a.C.: l’opera antica rivive in un periodo moderno, anche se non contemporaneo. Il regista sceglie quindi di riattualizzare l’opera, creando discontinuità rispetto al testo di Sofocle. L’assenza di scenografia, composta solo da una panca, uno sgabello e dal corpo senza vita di Polinice, lascia concentrare l’attenzione dello spettatore sul testo, che è il vero protagonista dell’azione. Un ruolo fondamentale è svolto dalle luci, fredde, che delimitano lo spazio centrale in cui si svolge l’azione. Quando gli attori escono di scena, compiono percorsi differenti: alcune volte seguono il perimetro dello spazio illuminato, altre si muovono in linea retta verso la panca. Colpisce l’illuminazione di Polinice: è al buio quando il cadavere viene sepolto e quindi onorato, è illuminato quando non lo è. Sebbene la scena sia profondamente attualizzata (si pensi ai costumi, ma anche all’uso del romanesco per il personaggio della guardia), il regista è fedele al messaggio e agli ideali veicolati da Sofocle: l’opera ci presenta uno scenario in cui sarebbe necessaria una mediazione tra gli ‘eccessi’, in cui sarebbe opportuno mostrarsi flessibili davanti ad opinioni differenti, in cui occorrerebbe il coraggio di mettere in dubbio le proprie convinzioni. Sono questi i valori evidenziati da Civica, e che, invece, vengono a mancare tra gli ostinati conflitti dovuti alle incongruenze di pensiero delle parti in causa. Pur avendo due visioni contrastanti della legge e della giustizia, Antigone e Creonte si assomigliano nel voler prevalere l’uno sull’altro, portando avanti con decisione (o ostinazione) le loro idee. Questa aspra testardaggine, descritta con l’aggettivo deinòs, un “miracolo che fa paura”, si insinua nel contrasto tra legge divina e legge umana. Ognuno sostiene con veemenza la sua tesi, argomentandola su solide basi. Il regista, tuttavia, sembra porre particolare attenzione a non sbilanciarsi, lasciando allo spettatore la facoltà di schierarsi a favore di Antigone o Creonte. Grazie a luci e ombre dei due personaggi, il pubblico cade nell’indecisione, parteggiando ora per uno, ora per l’altro, senza mai trovare un’opinione stabile. In questo modo lo spettatore entra nel vivo del dibattito che, adesso come venticinque secoli fa, animava gli abitanti della polis. Inoltre, emergono con forza il dramma di un governo eccessivamente autoritario, il rapporto tra sorelle, le difficoltà della relazione tra genitore e figlio. Tutto questo scuote ed appassiona la platea, che continua a porsi interrogativi anche dopo il termine della rappresentazione, interrogativi ai quali, però, non sempre riesce a dare sicure risposte.

Rubrica
Tante sono le riflessioni che una rappresentazione come quella di Civica stimola nello spettatore. Rispetto all’opera originaria di Sofocle, in cui pure il tema è presente, nel suo adattamento il regista sembra rimarcare la disparità tra uomo e donna. “Siamo donne, non siamo nate per fare la guerra agli uomini, dobbiamo piegarci a chi è più forte di noi e obbedire agli ordini”: così Ismene fa notare alla sorella come l’essere donna a quel tempo (nel V secolo a.C. ma anche durante il fascismo) rappresentasse una debolezza all’interno della società. Ismene appare come una donna consapevolmente sottomessa al volere degli uomini, priva del coraggio necessario a reagire; ciò enfatizza il carattere opposto della sorella, Antigone, che, al contrario, si espone e, mostrandosi sdegnata e delusa con lei, non ha paura di disobbedire al potere tirannico di Creonte. L’uomo, a sua volta, dichiara apertamente di non poter essere sminuito e che le sue leggi non possono essere trasgredite, in particolar modo da una donna. Al giorno d’oggi, nonostante i progressi in molti ambiti, crediamo che nell’immaginario collettivo l’uomo sia ancora in una posizione privilegiata rispetto alla donna. In alcune parti del mondo, sebbene questa idea persista, la donna ha iniziato a protestare, mostrandosi alla pari dell’uomo in ambito politico e sociale, proprio come ha fatto Antigone con Creonte. Antigone, però, ha dovuto combattere la sua battaglia da sola, mentre oggi la sua figura è d’ispirazione a un gran numero di donne, che, collaborando insieme, continua a dare forza al movimento femminista, al fine di arrivare ad una società in cui siano annullate le differenze.

 

a cura di  Classe 2A Liceo Scientifico Enrico Fermi, Bologna
(coordinamento prof.ssa Paola Centineo)

Recensione
Lo spettacolo “Nel tempo degli dèi. Il calzolaio di Ulisse” di Marco Paolini racconta la storia dell’eroe dopo il ritorno a Itaca, quando, insieme al figlio Telemaco, intraprende un nuovo viaggio verso lo “Chalet Olimpo”. Ulisse è un uomo invecchiato, reso stanco dal continuo peregrinare; lungo il cammino incontra un giovane pastore, a cui, sotto le mentite spoglie di un calzolaio, racconta, attraverso un flashback, le sue vicende passate. Il dialogo tra i due si alterna tra i ricordi di episodi dell’Odissea, più o meno noti, e i riferimenti al tempo presente, talora sdrammatizzandoli con battute sui vizi e sui problemi della nostra società. Sulla scena agiscono principalmente Ulisse ed Hermes, che si presenta come un giovane pastore dal carattere superficiale, viziato e capriccioso, che, con le sue domande, stuzzica continuamente l’eroe.  Tutte le figure femminili sono interpretate da Saba Anglana, attrice poliedrica che danza, canta e recita, rappresentando i vari personaggi attraverso l’utilizzo di diversi oggetti di scena. Sullo sfondo, su un palco rialzato, ci sono Femio, l’aedo, che accompagna le vicende con la chitarra, e Atena, che con il suono del suo violino dialoga con Ulisse. Infine, Telemaco, presenza silenziosa, ma fortemente simbolica. Attraverso il racconto, Ulisse svela lati del suo carattere sconosciuti, come quando, nel cavallo di Troia, strangola un suo compagno uccidendolo, pur di farlo tacere, oppure quando, con estrema ferocia, compie la strage dei Proci e delle sue ancelle. I ricordi, spesso dolorosi, gli permettono di comprendere che ha trascorso tutta la vita ad inseguire il volere degli dèi nell’illusione di eguagliarli. Alla fine, però, il protagonista, decide di andare contro il loro volere, e, invece di godersi la ricompensa divina dell’immortalità, rivendica il suo destino da mortale, la sua umanità. Ed è proprio in questa scelta finale che si crea un legame tra lo spettatore e l’eroe, consapevoli entrambi di vivere una vita come marionette, manipolate e condizionate da una società che ci impone dei modelli a cui attenerci e degli idoli da seguire, che produce messaggi di odio e di propaganda. Durante lo spettacolo, la musica sostiene con forza l’intero racconto attraverso delle particolari scelte di regia: sono presenti vari generi musicali e canti in diverse lingue (inglese, curdo, somalo, amarico, greco, macedone, etiope) per rivolgersi ad un pubblico ampio e internazionale e per ricollegarsi al tema del viaggio, che caratterizza da sempre l’eroe omerico. Inoltre la sonorità è prodotta anche dalla presenza di alcuni pannelli metallici, che, colpiti, producono sordi rumori durante la tempesta di Eolo e la strage dei Proci; i medesimi pannelli servono anche a riflettere la luce, creando particolari effetti luminosi. Anche la lingua usata dai personaggi è varia, infatti, è ricca di termini del gergo giovanile (slang), di espressioni volgari e dialettali (veneto e brianzolo). Tale scelta risulta efficace, poiché rende accessibile lo spettacolo ad un pubblico vasto, di varie età e generazioni. Alla fine della rappresentazione lo spettatore esce da teatro con una nuova consapevolezza; come ha detto lo stesso Paolini: “Questa è la storia di un archetipo che pensiamo di conoscere, ma che invece svela altre parti di sé.”

Rubrica
Quell’ Ulisse che abbiamo sempre conosciuto, come l’eroe dell’astuzia, dell’intelligenza e della conoscenza, non è lo stesso che ci appare durante la visione dello spettacolo. Egli, infatti, si presenta come un uomo alla continua ricerca di qualcosa, in particolare del consenso degli dèi; in questo appare molto simile a noi, costantemente insoddisfatti. L’eroe, lungo la strada per lo “Chalet Olimpo”, sollecitato da Hermes, si rende conto dell’influenza che gli dèi hanno avuto nella sua vita e si “ribella”. Gli spettatori allora si domandano: “Stiamo facendo davvero ciò che vogliamo? È questa la strada giusta per noi?”. I nostri comportamenti sono spesso generati dal bisogno di apparire, di ottenere consenso sociale o di ambire ad un tenore di vita che probabilmente neanche desideriamo. Essere ricchi, indossare abiti di marca, avere tanti followers sui social ci rende davvero felici?  Come le divinità antiche, erano solite giocare con la vita dei mortali, che venivano trattati come marionette, così oggi la società ci manipola imponendoci ogni giorno i suoi canoni di benessere e successo. Concentrati solamente su di noi, non ci accorgiamo di chi si trova in una situazione peggiore, come i profughi, a cui si fa spesso riferimento durante la rappresentazione. Quello su cui lo spettacolo ci fa riflettere, è la nostra capacità di fare delle scelte, che è quella che ci distingue dagli automi. Ciò che ci frena è spesso il timore di perdersi qualcosa, preferendo una strada ad un’altra, oppure il distinguersi dalla massa, avendo paura di essere esclusi. Il rischio, come dice Massimiliano Civica, regista teatrale, è di diventare sempre più degli spettatori passivi della nostra vita; in questa occasione, però, grazie al teatro, abbiamo imparato ad essere degli spettatori attivi.

La monaca di Monza

a cura di  Classe 2 Liceo Istituto S. Alberto Magno, Bologna
(coordinamento: prof.ssa Marcella Giulia Pavoni)

Recensione 
Nel nuovo adattamento a tre voci e regia di Valter Malosti, la monaca di Monza (Federica Fracassi) di Giovanni Testori porta alla luce un personaggio molto moderno. La affiancano Michele Paganini, nei panni di Gian Paolo Osio, e Giulia Mazzarino, la conversa assassinata. Sipario aperto e scena buia. La luce si alza lentamente su una teca in plexiglass e dentro c’è Lei, la monaca, da morta, completamente coperta dal suo abito. In un sottofondo inquietante di pioggia, latrati lontani, gocce e rumori metallici, “La notte è scesa un’altra volta su Monza” sono le sue prime parole. In quell’angusto spazio che diventa prigione, il monologo di Suor Virginia si fa pian piano più energico, rabbioso, incandescente. Dal suo violento concepimento, quando “il verbo si è fatto carne”, ripercorre a balzi la sua amara vita terrena. Tra improvvise interferenze luminose, nelle altre due teche che ora si intravedono sulla scena, si alternano i protagonisti che l’hanno accompagnata: la madre, inizialmente, ma soprattutto il suo amato Gian Paolo Osio e la conversa da loro assassinata. Il secondo a parlare è Gian Paolo, in un’atmosfera non più cupa e violenta, ma ritmata da una vivace musica rock di sottofondo. Una luce rossa illumina nello stesso momento anche la monaca, “la bella del convento”, come lui la descrive, che balla trascinata dal ritmo. Il suo è un canto blasfemo, che, narrando la storia della “suora senza fede, costretta in queste mura dalla violenza di un padre despota”, bestemmia contro Dio e la creazione da Lui concepita. Il terzo personaggio, nella teca centrale, è la giovane conversa Caterina, vittima dei due amanti, che narra la sua storia e porta il suo punto di vista: di umili origini, orfana, non si sente molto diversa dalla “Signora”, perché anche lei costretta al convento. La sua speranza è stata solo quella di partecipare ai ritrovi dei due, sperando di “vivere” di nuovo. All’interno delle tre celle, che sono prigione e bara, la parola è accompagnata dall’uso evocativo del corpo. Per prima, Suor Virginia, da monaca spettrale che mostra scoperte solo le mani, gradualmente si svela nella sua femminile umanità, mostrando i capelli e il petto, urlando il suo amore a Gian Paolo e imprecando contro Dio. Anche lui, nel corso del suo racconto che si alterna a quello della monaca, si scopre pian piano, fino al petto nudo e sanguinante del momento finale. Lo stesso fa la conversa Caterina, inizialmente con il capo coperto dal velo, poi con i capelli lunghi sciolti sulle spalle e l’abito lungo e bianco spesso alzato a mostrare in modo sensuale le gambe. Il culmine della loro umanità si registra nella morte: per Gian Paolo, fuggito, braccato e infine raggiunto dai suoi inseguitori, è efferata e furiosa. Per Caterina è altrettanto cruda e violenta, senza pietà, tra luci-flash e suoni acuti. Per suor Virginia, la fine passa attraverso la prigionia, la solitudine, i ricordi senza pentimento, prima nella sfida di resistere e di rivedere Gian Paolo, poi, quando lui sarà già morto, nella determinazione a tornare alla luce e alla vita. Gli attori interagiscono in solo due occasioni: nella descrizione dell’irresistibile amore carnale tra Virginia e Gian Paolo e nell’inevitabile omicidio di Caterina da parte di Gian Paolo.

Rubrica
“Si può amare come lui mi ha amata? Lo chiedo a te, Cristo”. Queste le parole della monaca, suor Virginia, e della donna, Marianna De Leyva. La domanda che è sorta in noi è: può questo essere amore?La risposta che ci siamo dati è sì. Nonostante il sangue, la carne, la ferocia, quello tra Marianna/Virginia e Gian Paolo è un amore profondo, lacerante e passionale, che va contro la legge di Dio e degli uomini. E’ il vero protagonista della tormentata confessione della monaca, quando grida: “L’ho amato più della mia stessa regola” e di quella rabbiosa di Gian Paolo, che a un certo punto sussurra “Quel che Virginia era per me l’ho capito veramente quando non l’ho più avuta”. Le parole superano la barriera del plexiglass, escono dalle celle in cui vengono pronunciate e si fanno testimonianza diretta di un’ossessione totalizzante. Agli occhi di noi giovani del 2020, che viviamo in un’epoca in cui a nessuno viene più imposto nulla in nome della libertà e del diritto dell’individuo, in cui non sappiamo cosa sia davvero il sacrificio, perché ci viene offerto tutto e subito, quello della monaca e di Gian Paolo pare un grido alla vita, una legittima richiesta di amore, un urlo disperato a Dio, che ci ha creato di carne, sensibili alle passioni, e poi ci chiede di non cedere al peccato. Marianna avrebbe dovuto poter amare. La colpa non è sua.

Visite

a cura di Classe V T Liceo Scientifico “Augusto Righi”, Bologna
(coordinamento prof.ssa Paola Ricciotto)

Recensione
Un’anziana rimugina tra i ricordi accumulati in una stanza: una borsetta, un cappotto, delle pantofole e una vecchia fotografia dell’amato sono gli oggetti di un’intera vita da portare con sé. Si apre così Visite di Riccardo Pippa, uno spettacolo che ripercorre le fasi dell’esistenza seguendo l’inesorabile fluire del tempo. Nel palco, allestito a stanza da letto, i sei personaggi entrano ed escono, in un susseguirsi di “visite”. I due protagonisti, ispirati alle figure di Filemone e Bauci del mito di Ovidio, ospitano nella loro casa quattro amici, con i quali condividono le esperienze di tutta la vita. Partendo da una gioventù frenetica e caotica, passando per una maturità fatta di gesti ripetitivi che scandiscono il tempo che passa, arrivano al periodo della vecchiaia quasi senza rendersene conto. Nel finale il cambio della scenografia sembra cancellare il passato, ma un’ultima inaspettata “visita” toglie ancora al tempo la possibilità di scrivere la parola fine. Tutto lo spettacolo consiste infatti in una lunga progressione in cui i personaggi esauriscono man mano le loro energie, assorbite da un tempo tiranno che non può però sconfiggere il legame di una forte amicizia. Inizialmente i ritmi sono ben scanditi, col progredire degli eventi rallentano fino a fermarsi. Gli anni più vivaci della gioventù sono messi sul palco con scene movimentate e cariche di vitalità. I ragazzi urlano, litigano, fanno l’amore, corrono nudi e saltano sul letto vivendo la vita in tutta la sua frenesia. Tra un ballo e l’altro si consolidano e si evolvono quelli che saranno i legami indissolubili di una vita intera, determinanti nel finale. Pian piano i rapporti cambiano, gli amori nascono, i capodanni e i compleanni passano. Ad un tratto però i segni del tempo diventano visibili, sia nei comportamenti sia sui volti, la vitalità comincia a spegnersi e i movimenti si fanno più lenti e costanti. Nella fase della maturità i personaggi cercano di rimanere aggrappati alla gioventù rivivendo gli stessi momenti spensierati, che però non riescono a suscitare le stesse emozioni. Così, mentre svaniscono i sogni giovanili, si assiste ad una resa al tempo che passa e a una prima presa di coscienza dell’aleatorietà dell’esistenza. La protagonista si sveglia e non trova più l’amato al suo fianco. La camera da letto si trasforma nella stanza di una casa di riposo. La calma, che pervade la fase dell’anzianità, permette di far decantare le emozioni percepite. E lo spettatore, che all’inizio viene travolto e spiazzato dagli eventi senza avere modo di rendersi conto di quello che sta accadendo, alla fine riesce a darsi una risposta sul senso dell’opera e a riflettere sulla velocità con la quale la vita passa. Una caratteristica chiave dello spettacolo è la quasi totale assenza di dialoghi tra i personaggi. Il sapiente uso della musica e della gestualità degli attori è in grado di sopperire alla mancanza del parlato, riuscendo anche a coinvolgere lo spettatore che è portato a dare un’interpretazione personale. Una radio accesa all’inizio dello spettacolo accompagna con la sua musica lo svolgersi della vicenda, aggiungendo atmosfera e colore. Canzoni latine passionali e vibranti fanno da colonna sonora agli anni della gioventù, poi accompagnano la maturità diventando più lente e ripetitive. Nell’ultima fase la musica classica, scandisce, con note di malinconia, la tranquillità e la pacatezza tipiche della vecchiaia. Un ruolo fondamentale è giocato dalle maschere che alcuni personaggi indossano nel corso dello spettacolo. Il loro utilizzo esalta l’espressività dei movimenti e la gestualità, aumentando la potenza comunicativa delle ultime scene. Esse rappresentano nelle loro fattezze la perdita della giovinezza e portano nei segni del tempo i ricordi della vita trascorsa.


Rubrica

Il tempo è la componente fondamentale della nostra vita, scorre senza sosta definendo negli anni la storia di ognuno di noi. Possiamo scegliere come sfruttarlo ma non possiamo controllarlo. Quante volte ci hanno detto di non sprecare il nostro tempo e quante tante altre volte di prendere al volo le occasioni che si presentano. Quanti film e libri ci hanno insegnato a cogliere l’attimo. Prendiamo per esempio uno dei più grandi capolavori del cinema, L’attimo fuggente di Peter Weir, in cui, anche grazie all’interpretazione fenomenale dell’attore Robin Williams, siamo riusciti a intuire il valore essenziale della vita, a inseguire i nostri sogni e soprattutto a vivere il “carpe diem”. Se sottovalutiamo questi aspetti, veniamo risucchiati nel loop temporale della quotidianità, una monotonia dalla quale si cerca di scappare invano. Mettiamo a fuoco lo spettacolo Visite di Riccardo Pippa, che è colmo di riferimenti alla routine che gradualmente consuma lo spirito umano. L’abitudine scandisce già la giovinezza…Essa tuttavia è un’età carica, in cui convivono due diverse percezioni del tempo: da una parte si vive il tempo presente, godendo ogni attimo nella sua intensità, dall’altra ci si proietta nel tempo futuro immaginando mille “scenari” possibili e si prendono delle decisioni importanti. Ma soprattutto è l’età tipica dell’incoscienza, e, nella vecchiaia, è ricordata come il periodo delle passioni, dei desideri, dei primi amori e delle amicizie più significative, ma anche come l’attimo fuggente che lascia un po’ di rimpianto.

 

Mario e Saleh

a cura di Classe II A CIOFS-FP/ER corso per “Operatore dei sistemi elettrico elettronici”
(coordinamento prof. Luca Lambertini)

Recensione
Come primo impatto abbiamo notato l’interno di una tenda di cui, in qualche modo facevamo parte anche noi. In un’atmosfera di disagio e povertà si sono presentati i protagonisti: Mario e Saleh, cristiano il primo e mussulmano il secondo. Sin dalle prime battute gli spettatori sono stati travolti da una fitta serie di luoghi comuni lanciati contro i musulmani, denigrati come: “tutti uguali”, “terroristi”, “ladri”, “sporchi”, “rigidi”, etc… Attraverso un testo semplice ed efficace, la rappresentazione teatrale ci ha portato a ragionare sugli stereotipi. Partendo da una domanda che Mario rivolge a Saleh ovvero: “MA PERCHÈ HAI SCELTO DI VENIRE IN TENDA CON UN CRISTIANO?”. Le azioni di Saleh sulla scena aiutano senza dubbio a capire come l’azione del singolo non vada generalizzata.  I dialoghi sono stati costruiti in maniera davvero attenta e quel “voi” buttato di continuo in faccia a Saleh da Mario (soprattutto nella fase iniziale) è stato come il suono di un metronomo che teneva alto il ritmo degli atteggiamenti difensivi/aggressivi e allo stesso tempo intolleranti. Il modo di parlare – semplice e fluido – dei due protagonisti, sicuramente è funzionale a essere capito facilmente anche dai giovani. Questa rappresentazione teatrale dimostra che per passare dalla diffidenza ad un rapporto di fiducia bisogna dare tempo al tempo e, prima di arrivare a ciò, ci sono voluti vari passaggi e diversi segnali attraverso i quali i due personaggi si sono testati a vicenda e pian piano hanno superato le reciproche diffidenze. La contrapposizione tra i due personaggi causa un divario nella psiche dello spettatore, altalenante tra le argomentazioni di Mario e quelle di Saleh. Il veloce susseguirsi delle emozioni dello spettatore si intensifica quando Mario parla per la prima volta del suono della neve e del perché gli piaccia. Un altro fattore molto influente – dal punto di vista dell’attenzione – è stato rappresentato dalle luci e dalla musica, gestite molto bene: infatti hanno illuminato ed esaltato gli stati d’animo – nonché le emozioni – degli attori in uno scenario per lo più cupo è sconsolato (quello di una tenda da campo allestita per persone terremotate). L’unico limite che forse si può attribuire a questa rappresentazione è che, probabilmente, ha una conclusione eccessivamente ottimistica rispetto a come possa concretizzarsi nella realtà l’incontro/scontro fra cristiani e musulmani.

Rubrica

MARIO: “(…) Tu fai pure quello che vuoi, basta che non limiti la mia libertà, hai capito? (…)”
SALEH:  “Ah, sì? Alla fine noi limitiamo a voi la libertà? Ma se noi qua non possiamo stringere gli occhi, non possiamo fare una smorfia, non ci possiamo arrabbiare, non possiamo scappare, tra poco non possiamo manco più ridere che subito vedi che sono violenti, vedi che sono sporchi, vedi che sono ladri, vedi che sono dell’Isis? E poi limitiamo a voi la libertà?”
Mario, implicitamente, in questa parte del dialogo, afferma di non voler limitare la libertà di Saleh e pretende da quest’ultimo la stessa cosa. Con questa affermazione si percepisce l’ignoranza e l’arroganza di Mario nei confronti di Saleh – figlie del retaggio culturale di Mario – che vengono rafforzate dai recenti avvenimenti (episodi di terrorismo) dei quali vengono accusati i “connazionali” di Saleh.
Saleh, invece, dopo aver compreso il concetto sottostante il discorso di Mario, gli risponde ovviamente in modo alquanto irritato. La rabbia è causata dall’ignoranza e dagli stereotipi relativi alla sua cultura nel cosiddetto mondo Occidentale. Questo è l’obbiettivo – a nostro giudizio – della rappresentazione teatrale: colpire l’emotività dello spettatore tramite battute pungenti di Mario, che spesso sono dense di razzismo, e monologhi di Saleh molto emozionanti, contenutisticamente all’opposto del pensiero di Mario. Da questo dialogo emerge come il concetto di libertà per molti sia, purtroppo, strettamente discrezionale e fondata su una dimensione non universalistica: il punto di vista è concentrato, infatti, sulla propria libertà e non sulla libertà degli altri. Se si considerano la libertà (e le libertà di ciascun essere umano) è molto più agevole individuare e smascherare le persone poco informate e con mentalità chiusa, che si limitano a giudicare e a etichettare le persone sulla base delle origini o del colore della loro pelle. Quando non si considera il livello di libertà degli altri – ma si riesce a vedere solo il proprio – è come se si pretendesse di guardare un paesaggio attraverso un muro alto e senza finestre. Nella nostra classe la presenza di diversi ragazzi provenienti da zone devastate da guerre e crisi economiche ci ha aiutato davvero molto a comprendere il significato della parola libertà, soprattutto perché, se una persona viene da uno stato oppresso dove la libertà e le libertà vengono negate, si sposta in un altro stato per cercare di ottenere queste libertà e – nella maggior parte dei casi – la realtà che trova è fatta di sistematiche negazioni proprio della libertà (e di tutte le libertà). Paradossalmente, poi, gli viene anche mossa l’accusa di negare ad altri quella libertà e quelle libertà di cui questa persona non gode affatto. Questo dialogo, infine, sintetizza e rappresenta in maniera davvero efficace la complessità del rapporto tra popolazioni e religioni diverse che spesso, anziché dialogare, confliggono in maniera distruttiva e lesiva delle libertà di tutti, in particolare dei soggetti più deboli che subiscono i conflitti e gli scontri di “civiltà”. 

Commedia con schianto



a cura di
Classe IIIA – Ciofs – FP/ER
(coordinamento prof. Niccolò Gozzi)

Recensione
Un frigo, delle sedie, un enorme pera fatta di piccoli specchi che pende sopra la scena, lateralmente le piantane che reggono fari ci mostrano l’artificio della scena, un primo inizio. La scena di “Commedia con schianto” di Liv Ferrachiati si mostra a noi così. Viene presto inondata dal fumo, quasi a sottolineare l’indecisione e la poca chiarezza che abita il protagonista, un autore under 35 che rappresenta al contempo sé stesso e un’intera generazione. Lo spettacolo prosegue con la struttura delle antiche commedie greche in cui la narrazione, frammentata in pezzi staccati gli uni dagli altri (quasi da sembrare autonomi) concorrono, come tasselli di un mosaico, ad affrontare una narrazione complessa. Si parla infatti di uno spettacolo (e di un testo), che stanno nascendo con difficoltà, arenati a pagina 17. “E’ solo l’apocalisse, niente di che. Tutto si sta destrutturando”. Necessario quindi affrontarlo con abiti argentati e dorati di paillette con ancora attaccati i cartellini del prezzo, quasi a mostrare la precarietà della vita in prestito dei cinque attori in scena. “Oh Dio, ho agito, non ho sublimato!” spiazzato dal suo stesso comportamento, l’autore under 35 bacia l’attrice di cui è innamorato, dando così compiutezza ad un testo fino a quel momento ineffettuale. L’intreccio della commedia, spesso, si perde e si ritrova nelle riflessioni dell’autore e degli attori, restituendo una certa leggerezza che conduce il pubblico al sorriso ed alla risata. L’incedere spensierato tuttavia non valorizza a sufficienza, per contrasto, il tema caro a Ferracchiati, l’apocalisse che sembra affliggere il teatro non riesce ad elevarsi, come forse potrebbe, denunciando la fine della cultura occidentale che nel greco antico rileva il punto di partenza e di approdo dell’intera struttura drammaturgica.


La visione dello spettatore assente – Il disegno della scena narrata dai compagni

Poiché molti studenti non erano presenti la sera dello spettacolo, i compagni presenti hanno narrato in aula sia la trama che la descrizione dello spettacolo ed i compagni hanno disegnato ciò che è stato descritto.

Rubrica
L’autore under 35: c’è questo autore che chiede di essere salvato a una tizia che ha incontrato ad un meeting di drammaturgia contemporanea europea e glielo chiede mentre sta mangiando una pera, no? 
A: una trama spiazzante.
Da cosa dovrebbe salvarlo, la tizia?
L’autore under 35: sento che è qualcosa di forte, ma non lo so verbalizzare

Il protagonista parla alla ragazza di un testo che descrive esattamente quello che sta avvenendo nella vita reale. La ragazza inizialmente rimane spiazzata. Lui, inoltre, le chiede aiuto e afferma che l’unica cosa che lo conforta è mangiare le pere. Infatti la pera per il protagonista è fonte di piacere ed è per lui una metafora rispetto alla morbidezza e la gradevolezza, come lei afferma dopo averlo ascoltato “Ultimo baluardo dello sconforto”. La sua viene da pensare che non sia una vera e propria richiesta di aiuto di tipo economico, di salute o psicologico, ma dettata da un’esigenza dallo scrivere. Crediamo che il blocco dello scrittore in realtà sia un blocco di “vita”. Il nostro protagonista è come bloccato in un cortocircuito, una spirale da cui non riesce ad uscire, un labirinto senza “Filo di Arianna”. Al giorno d’oggi anche noi giovani possiamo pensare di essere spesso costretti in situazioni difficili da cui  uscire. Il rifugio a volte diventa un finto aiuto: La droga, il cibo, l’uso della tecnologia eccessiva. In questo buio e negatività appare chiaro però quello che da questo cortocircuito si percepisce: Una richiesta d’aiuto. Quali sono i segnali d’aiuto che noi giovani chiediamo? Spesso non sono ascoltati o capiti e qualcuno purtroppo si perde per sempre. Ecco che quindi, come il teatro torna alle origini delle tragedie e commedie della Grecia Antica facendoci vedere nello spettacolo dialoghi e struttura appunto tipiche del teatro Greco cosi noi giovani troviamo rifugio, o meglio, dovremmo trovarlo, presso le nostre “origini”, ovvero la famiglia.

 

 

 

Nozze

 

a cura di Classe 3E, Liceo Artistico Arcangeli, Bologna
(coordinamento prof.ssa Chiara Fumagalli)

Recensione
Che cosa associamo alla parola “nozze”? Felicità, unione, legame, solidarietà: l’opposto di ciò che viene discusso nel primo testo teatrale di Elias Canetti, Nozze, scritto nel 1931, riproposto dalla Fondazione ERT con la regia di Lino Guanciale. Nella trama alcuni abitanti di un condominio stanno festeggiando un matrimonio quando, all’improvviso, un terremoto scuote il palazzo. Questo terremoto è reale o è un terremoto simbolico che va a sottolineare la decadenza intellettuale e morale dei personaggi? Nel condominio stesso sono riprodotte le dinamiche di una società grottesca, la stessa che di lì a poco accetterà e abbraccerà le idee naziste, che condurranno poi alla Seconda guerra mondiale. I personaggi di Nozze vivono un’esistenza vuota, guidata da istinti vili e dalla smania di possesso materiale ed erotico. Per soddisfare i propri bisogni essi annullano la propria identità, i pensieri, i dubbi, i princìpi e le emozioni, lasciando spazio a un vuoto che viene riempito dai possedimenti materiali. Annullando la propria identità distruggono quella dell’altro rendendolo un oggetto, un possedimento. Con l’annullamento dell’individualità assistiamo ad un annullamento della volontà e quindi a una perdita di umanità. Tralasciando i principi morali, i personaggi si ritrovano intrappolati negli istinti più vili, per cui gli unici loro pensieri riguardano sé stessi e i propri averi. Canetti denuncia, così, la bassezza morale della società borghese, dipingendo un microcosmo grottesco specchio di una parte di popolazione che accetterà i valori disumani del Nazismo. Canetti scrive l’opera nel 1931 e dunque la critica al Nazismo non è esplicita. Nella regia di Lino Guanciale per tutto lo spettacolo troviamo dei riferimenti evidenti al Nazionalsocialismo hitleriano, che rappresentano una chiara aggiunta del regista. L’uniforme e il saluto nazista non arricchiscono in alcun modo la trama, anzi sminuiscono la critica sottile e misurata di Canetti. Nonostante Nozze abbia realmente una trama piuttosto bizzarra e sopra le righe, con personaggi caricaturali, il regista ha scelto un registro didascalico e letterale che non rende la complessità del testo e dei suoi significati nascosti. Esasperando gli aspetti grotteschi, Guanciale ha diretto gli attori verso una recitazione bidimensionale. Le uniche due emozioni che i personaggi riescono ad esprimere sono rabbia e disperazione, e la recitazione costantemente urlata risulta fastidiosa. Non ci sono momenti di quiete, e per via di questa mancanza di calma la rabbia e la disperazione perdono significato. Molti degli attori avevano recitato anche ne La Commedia della Vanità (un’altra opera teatrale di Elias Canetti, diretta da Claudio Longhi) e abbiamo notato come, in entrambi spettacoli, mantenessero lo stesso stile recitativo. Particolarmente interessante risulta la scenografia che rappresenta il condominio, composta da un palco mobile su cui vi erano i vari appartamenti allestiti come piani rialzati a diverse altezze. In questi gli oggetti che componevano il mobilio erano disposti in maniera da essere funzionali anche nel poco spazio a loro disposizione, come il letto della moglie del portiere, disposto in verticale e al quale la donna si appoggiava con la schiena, restando in realtà in piedi. Queste scelte però a volte rendevano difficile agli spettatori nei palchi di destra vedere in maniera completa la scena, poiché la visione era impedita dal letto e fortemente limitata su altre zone del condominio. Tuttavia, nel complesso la scenografia attrae lo spettatore e lo spinge ad osservarla nei dettagli, soprattutto nei pochi minuti iniziali, prima che lasci il posto, per la maggior parte dello spettacolo, alla più spoglia e meno articolata scenografia della sala da pranzo. In conclusione, Nozze è uno spettacolo non fedele al testo originale di Canetti, infatti ne è chiaramente un’interpretazione, ma per i suoi molteplici e interessanti riferimenti alla nostra contemporaneità diviene un momento di riflessione per la sua importante critica sociale.

Rubrica
È strano pensare che, parlando degli anni ’30, ci si riferisca a quasi un secolo fa. Da allora molte cose sono cambiate, l’Uomo è arrivato sulla luna, la scienza e la medicina hanno fatto passi da giganti e la tecnologia ci ha permesso di racchiudere la nostra vita in un dispositivo delle dimensioni di una mano.  Per la maggior parte dei “nativi digitali” la quotidianità si divide fra le effettive azioni che si compiono durante la giornata e la cura della propria “vita sociale”, non intesa nell’accezione dei rapporti interpersonali, bensì come sviluppo della propria identità digitale, sotto forma di profilo, la quale è costantemente esposta alla “community” dei social network. Le cosiddette “vetrine social” si possono paragonare alla festa di matrimonio di Christa, luoghi in cui esibire le proprie “ricchezze” e qualità superficiali. Queste dinamiche mostrano quanto le virtù dell’uomo siano state surclassate per importanza dal suo bisogno di sentirsi sicuro nell’apparire invidiabile. Tale meccanismo porta a trovarci impreparati nei momenti in cui i nostri punti deboli, tenuti tanto nascosti, vengono fuori. La perdita delle sicurezze ci mostra come i commensali dopo il terremoto, spaesati ed impreparati a gestire questo tipo di situazioni. Qui l’opera mostra come queste insicurezze costituiscano il seme che porterà all’affermazione dei regimi totalitari che hanno segnato la storia del Novecento. Nonostante la distanza storica, possiamo notare quanto quei personaggi che risultavano estranei ed esagerati riescano a trovare una corrispondenza in figure della società moderna, grazie anche ai temi trattati non poi così lontani dalla nostra realtà attuale. La paura di ciò che non si conosce e di ciò a cui non si è preparati porta l’uomo a nascondersi dietro a una sicurezza cosiddetta apparente.

Gli studenti Matilde Iaquinta, Emma Moruzzi, Rodolfo Rivola e Giulia Salmi