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Del diritto alla città, o della riappropriazione creativa degli spazi urbani

Tra tutti i diritti umani, il diritto alla città è forse quello di cui si parla meno. Ciononostante, il modo in cui le persone possono vivere la città, hanno accesso alle sue risorse e possono trasformare lo spazio urbano, è una questione centrale per la società contemporanea. David Harvey ci suggerisce che il diritto alla città è in primo luogo il diritto di cambiare noi stessi con la città, e si riferisce non solo alla dimensione economica e alla (re)distribuzione delle risorse, ma anche alla dimensione relazionale e politica, che riguardano il diritto di chi può essere incluso nella vita urbana e chi, invece, ne rimane escluso, alla dimensione ambientale, la quale si riferisce al tema della sostenibilità che per essere tale deve rapportarsi anche al sociale. Nella città, tutti questi piani si intrecciano, si sovrappongono, talvolta si scontrano, per dare vita ad una geografia politica e sociale che condiziona il vissuto dei soggetti che quotidianamente la vivono, la attraversano, la trasformano.

Ed è proprio il famoso geografo americano, autore, tra l’altro, di un libro intitolato Città Ribelli a ricordarci che il diritto di “fare” e “rifare” le nostre città è uno dei diritti più preziosi, e al contempo dimenticati, dell’umanità. Un diritto che, però, necessita di essere esplicitato meglio per essere coscientemente affrontato, mobilitato, concretizzato nell’“invenzione del quotidiano”, come direbbe Michel de Certeau. Riprendendo la concettualizzazione lefebvriana di diritto alla città (1968), capiamo infatti che esso si manifesta attraverso due processi, tra loro fortemente interrelati. Il primo processo si manifesta nella ‘(ri)appropriazione’ di spazi fisici e simbolici dove si instaurano le relazioni sociali e dove si possono elaborare progettualità condivise e performare orizzonti comuni. Il secondo processo si riferisce alla ‘partecipazione’. Ma la partecipazione non deve riguardare solo gli strumenti attraverso cui le persone possono partecipare alla vita urbana, ma anche le occasioni che vengono create per ridefinire le norme e i valori alla radice dell’esclusione, supportando quella che Arjun Appadurai definisce la ‘capacità di aspirare’ delle persone.

Ragionando sul diritto alla città come diritto alla riappropriazione e alla partecipazione dello e nello spazio urbano da parte di tutti, turisti e vagabondi, migranti e rifugiati, studenti e lavoratori, residenti italiani o stranieri, le dieci giornate di Right to the City (Bologna | 15-24 giugno 2018) – curate da Piersandra Di Matteo e promosse da Ert Emilia Romagna Teatro, in collaborazione Cantieri Meticci e Dipartimento di Sociologia e Diritto dell’’Economia dell’Università di Bologna, nel quadro del progetto europeo Atlas of Transitions – propongono una de-costruzione e ri-costruzione creativa dello spazio urbano e della relazione che si viene a creare tra spazio della città e spazio corporeo e collettivo. Dieci di performance, condivisione, riflessione sulla migrazione, che cercano di destrutturare le narrative esistenti di tipo paternalistico o allarmistico e riconfigurando nuove relazioni, nuovi spazi di apprendimento condiviso in cui le capacità di ognuno contribuiscono al progetto artistico che interviene nello spazio urbano, in centro come in periferia. Partendo da una premessa essenziale che vede la diversità come un valore aggiunto, terreno di scontri ma anche di creatività e collaborazione, le varie attività – proiezioni, djset partecipativi, migrantour, performance itineranti, danza collettive, incontri, house concert e altro – promuovono quelle che Jean-Claude Kaufmann definisce una ‘comunità di azione’, che, a differenza della ‘comunità di appartenenza’, non viene utilizzata come risorsa dell’ego, ma mantiene il senso collettivo dell’agire per intervenire sulla quotidianità.

Interventi che riguarderanno zone centrali, attraversate ogni giorno da consistenti flussi di persone, e luoghi periferici, spesso dimenticati, ma che fanno egualmente parte della matrice che alimenta lo spazio urbano in cui viviamo, luoghi dove si possono creare nuovi spazi di socialità. Ed è proprio attraverso l’attivazione creativa e cognitiva di nuove forme di convivenza urbana e di riflessione condivisa sui cambiamenti in atto che, come già ci suggerivano i teorici dei movimenti sociali alla fine del secolo scorso, si possono attivare nuovi modelli di azione e processi di negoziazione, così come forme alternative di identità e cittadinanza. In questo senso, forse, la riappropriazione dello spazio urbano attraverso l’arte e processi partecipativi può diventare una modalità per sfidare le strutture dominanti di legalità e di cittadinanza, per iniziare a riflettere sull’alternativa a un mondo dominato da rapporti di potere internazionali che condizionano chi può stare e chi, invece, se ne deve andare, chi ha il diritto di scegliere dove vivere, e chi, al contrario, questa scelta forse non la potrà mai avere.

Melissa Moralli
(ricercatrice per Atlas of Transitions presso il Dipartimento di Sociologia e Diritto dell’Economia dell’Università di Bologna)