Stiamo caricando

Teatro in classe

Torna il percorso che accompagna i ragazzi delle scuole medie superiori a teatro curato dal collettivo Altre Velocità.
Dieci spettacoli della stagione di ERT / Teatro Nazionale a Bologna per altrettante classi di diversi istituti: gli studenti e le studentesse guarderanno una selezione di spettacoli scelti insieme ai loro docenti per poi restituirne una visione critica.

Recensioni

Se questo è un uomo

a cura di terza B, Liceo Scientifico A. Righi, Bologna
(coordinamento prof.ssa Laura de Maria)

Recensione
Il Levi di Malosti: la resistenza della parola in scena
Per noi della 3B del Liceo Scientifico Augusto Righi, lo spettacolo Se questo è un uomo all’Arena del Sole è iniziato con la conferenza di Valter Malosti, regista e attore del testo scenico oltre che direttore del Teatro, Domenico Scarpa, scrittore e sceneggiatore che ha curato insieme a Malosti la condensazione scenica e Wlodek Goldkorn, studioso di ebraismo e della shoah.

La prima immagine che ci ha colpito è stata quella del libro di  Primo Levi tenuto in mano da Wlodek Goldkorn.

Quel libro pieno di post-it che parlavano di tante letture successive  non si chiudeva, ma ostinatamente rimaneva aperto per dirci che il testo prende vita solo grazie ai suoi lettori. Questa è stata la nostra immagine guida, il filo rosso, per comprendere la  messa in scena di Malosti e Scarpa all’Arena del Sole,  un atto di lettura che è un atto d’amore verso la parola della letteratura.

Il velo scuro che lascia intravvedere allo spettatore la scena, diventa magicamente  una pagina scritta  che si “spezza” con il rumore pungente del vetro che va in frantumi, per rivelare il vero volto della scena: un interno scabro, freddo, anonimo  in cui entra Malosti-Levi  con un abbigliamento borghese, una grande valigia in mano piena dei suoi ricordi e subito capiamo che  di fronte a noi c’è l’auctor che attraverso un sofferto recupero memoriale rivive l’esperienza lacerante dell’agens nell’inferno di Auschwitz.

La sua parola è piena, arricchita di vibrazioni sonore, musicali, letterarie, plastiche e ci sferza, come le luce tagliente  e  ci chiede di essere ascoltata, ricordata, interpretata. L’attore in scena si muove poco, ma i sui gesti sono essenziali tesi, scolpiti.

Malosti-Levi evoca sulla scena due presenze enigmatiche, due esseri umani svuotati di dignità e vita che con la loro prossemica ci fanno rivivere la sofferenza dei tanti uomini, donne e bambini sommersi dalla barbarie infernale di Auschwitz.

Ma evoca anche Dante, per attaccarsi, nel momento dell’orrore, al folle volo di Ulisse e resistere con la parola della letteratura alla disumanizzazione.

Ecco allora la grande generosità dell’artista sulla scena che riesce a parlarci di amicizia e di humanitas nell’inferno della Storia.

E’ un teatro difficile che non lascia spazio all’immedesimazione ma che pretende la concentrazione e i tempi della lettura.

Anche la scenografia è complessa, essenziale e polisemica allo stesso tempo: una porta di un interno sullo sfondo, un pavimento fatto di lamiera con detriti inceneriti e  alla sinistra dell’attore un’ alta parete nera e sghemba che ci ricorda vecchi e nuovi muri. Il coro si risolve in musiche, rumori, suoni e luci strazianti che disegnano uno spazio scenico immersivo che non dà tregua.

Lo spettacolo si chiude in modo enigmatico, con la proiezione totemica di un enorme muso di cavallo bianco che ha  la plasticità di una scultura classica e la terribilità dell’ultima  incarnazione  di una possibile bellezza.

Abbiamo applaudito, tanto.

 

Con il vostro irridente silenzio

a cura di terza C, Liceo Scientifico A. Righi, Bologna
(coordinamento prof. Paolo Rota)

Recensione
Che l’irridente silenzio sia anche il nostro? Pensieri sparsi dalla camera di prigionia di Moro.
È dove vagano i fantasmi che possiamo trovare storie che accendano in noi il pensiero.

Le luci si spengono, il silenzio cade sugli spettatori, il sipario si apre: così si entra nel mondo dei fantasmi. L’ingresso di Gifuni sul palco dell’Arena del Sole è l’inizio del viaggio in questo luogo parallelo dove la sua appassionante voce fa da protagonista, permettendo allo spettro di Aldo Moro di riemergere. La scena si apre con degli ampi, silenziosi e attenti passi dell’attore, che richiamano l’attenzione senza emettere alcun rumore mentre fanno ingresso nella stanza della sua prigionia. Dopo aver raccolto da terra le ceneri di Moro, Gifuni sospira profondamente si immedesima nelle parole colme di aspettativa, amore e rabbia contenute nelle lettere.

Aldo Moro è morto ma il suo ricordo è vivo e potrebbe mantenersi tale in tutti noi. È l’inizio dello spettacolo ci viene augurato un “buon ascolto”.      

La voce riveste un ruolo fondamentale. Il tono ci fa percepire lo stato d’animo di Moro che si fa sempre più disperato e angosciato nell’avanzare dei giorni. Analogamente cresce il ritmo che diventa man mano più frenetico e incalzante grazie all’espressività dell’autore che permette agli spettatori di calarsi nell’intimità del dramma di Moro. L’espressività della voce viene valorizzata dall’utilizzo del microfono che consente di ampliare il ventaglio delle emozioni trasmesse con sospiri, sussulti e gemiti, arrivando a una qualità attoriale quasi cinematografica.  A focalizzare l’attenzione dello spettatore sulla parola parlata, un ruolo fondamentale viene rivestito dalla scelta del vestito indossato da Gifuni, un abito neutro e poco appariscente. Accompagnato da una gestualità a tratti esagerata per enfatizzare a accompagnare determinate parole e il loro senso. Aggiungono carica espressiva alle parole dell’autore anche la scelta del colore e dell’intensità delle luci che variano a seconda del contenuto e dei destinatari delle lettere. Il colore blu utilizzato per le lettere inviate ai parenti crea un effetto di accoglienza, una sorta di abbraccio che si contrappone al grigio adoperato per le lettere indirizzate ai politici e agli esponenti della DC che rende l’atmosfera piatta, morta e spenta.

Siamo ancora sensibili al dramma di Aldo Moro? Questa è la domanda che Gifuni, ci pone all’inizio di questo “esperimento teatrale”. L’intera rappresentazione ci spinge a riflettere su questo interrogativo partendo dal titolo. Di chi sarebbe il silenzio irridente?

Sicuramente quello dei politici italiani, menzionati da Moro nelle sue lettere, che hanno preferito tacere piuttosto che prendere posizione: l’irrisione pare dunque essere la vera causa della sua morte. Moro si sente abbandonato dai suoi compagni di partito e lasciato nelle mani delle brigate rosse. Moro contrasta questo mutismo “urlando” attraverso le sue lettere, Gifuni le paragona a un meteorite la cui colpisce lo spettatore, così come le implorazioni del politico che restano silenziose, censurate, le cui radiazioni persistono nonostante il passare del tempo. Queste lettere sono scariche elettriche attraverso cui Aldo Moro ci esorta a sostenere la nostra responsabilità a non tacere di fronte a situazioni difficili. L’”esperimento teatrale” ha avuto lo scopo di capire se la sensibilità riguardo al rapimento di Moro è ancora presente in noi, provando che le vibrazioni sono ancora vive e collettive. Gifuni con questo spettacolo ci ha spinto a riflettere: forse che anche noi siamo prigionieri dell’indifferenza?

La vita davanti a sé

a cura di seconda GLI, ITC Mattei, San Lazzaro di Savena
(coordinamento prof.ssa Daniela Zani)

All’inizio
Dopo aver passato la fila dei controlli eccoci finalmente seduti, davanti al sipario chiuso. Il teatro è pieno, dalla platea fino ai posti in alto! Tutti aspettiamo l’inizio dello spettacolo La vita davanti a sé, con Silvio Orlando che ne ha curato anche la riduzione e la regia.

Ci guardiamo attorno: il pubblico è misto, ci sono molti anziani e adulti, ma anche giovani, forse universitari e liceali. Tutti chiacchierano, piacevolmente, finché si sente la voce di Orlando, dietro il sipario che parla con noi! ” Grazie di essere venuti qui stasera, per amore del teatro e quindi, della vita”. Ci dice che in qualche modo siamo tutti eroi, che superano difficoltà e pesantezze, ma siamo presenti. Ci fa sentire il calore delle sue battute finché si alza il sipario e si svela la scena dove tutto si svolgerà: un condominio allampanato, composto da diversi scatoloni sovrapposti che s’illuminano progressivamente e ci portano con lo sguardo fino al sesto piano, dove vive Madame Rosa con Momò. E attraverso il gioco delle luci, che variano secondo le scene per dare più o meno profondità, e delle parole narranti del piccolo Momò entriamo nella storia…

Lavinia Berselli, Giorgia Baldi Torelli, Samuele Gueli, Jacopo Martinelli

 

Recensione
Lo spettacolo è ambientato nel periodo del dopoguerra in un quartiere degradato e povero della banlieue parigina; i protagonisti sono dei reietti della società che mostrano però grande umanità e si sostengono a vicenda, in una storia di amore e di formazione.

Silvio Orlando è l’unico attore che impersona tutti i diversi personaggi: dal piccolo Momò e dai suoi amici ai differenti adulti della vicenda. Gli basta una variazione di sguardo, dal basso all’alto o viceversa, d’intonazione della voce e il pubblico “vede” una scena complessa con più personaggi! L’attore individua linee costanti dei personaggi e ce le comunica con una differenziazione magistrale, mantenendo anche caratteristiche del suo modo di essere.

L’ironia è sottesa a tutta la storia, come se Orlando ci dicesse che tutto, anche le tragedie più grandi, possono essere narrate attraverso gli occhi di un bambino e quindi strapparci un sorriso.

L’Ensemble dell’Orchestra Madre accompagna la narrazione con melodie diverse, in parte balcaniche, sempre coinvolgenti che enfatizzano le scene ed emozionano il pubblico. Poi un giradischi ci proietta ogni tanto nella musica leggera francese degli anni ’50, con delle canzoni che alleggeriscono la storia fatta di abbandoni e di morte. Ma anche di crescita.

Tutte le scene sono accompagnate da luci differenti in base alla situazione, spesso in contrasto con il buio per incentrare l’attenzione sull’attore o per costruire significati, come i sei piani senza ascensore del povero condominio dove la vecchia ebrea, sopravvissuta ai lager, s’inerpica verso l’appartamento che condivide con i bambini “figli di puttana” abbandonati. Seguiamo la luce che sale e “vediamo” Madame Rosa, vecchia, pesante e malata e poi la “vediamo” scendere verso la cantina, luogo di attesa della morte.

Rametta Giulia, Sette Jasmine, Benassi Riccardo, Draghetti Samuele

 

Riflessioni

Lo spettacolo ci pone difronte a problematiche cruciali della storia del Novecento, come il Nazismo, il conflitto ebrei/arabi, il razzismo che rimangono però sullo sfondo a dare spessore alle vicende umane dei personaggi. Ci sono vari rimandi alla multiculturalità e alla differenza nell’intreccio delle storie di francesi, ebrei, arabi, prostitute, transessuali, proletari di varia origine. Da questo intreccio emerge chiaro il tema principale, scandito anche alla fine dello spettacolo: la necessità di volersi bene, oltre qualsiasi etichetta.

 “Bisogna voler bene” incondizionatamente, stare bene insieme, imparare a convivere con gli altri, ad abbattere l’odio e la cattiveria. Il piccolo Momo, figlio abbandonato di una prostituta di Belleville, vuole bene e dovremmo imparare da lui. Ama di amore puro Madame Rosa, che pure percepisce un assegno per crescerlo, vuole bene a Madame Lola e a tutti coloro che appartengono alla cerchia della sua vita schifa, di bambino abbandonato. Non ha pregiudizi, lui tiene a tutti. L’amore è una ricerca di attenzioni, la stessa che Momo ci mostra per tutto lo spettacolo, anche quando rubacchia o fa la cacca in giro per la casa. Un sentimento scontato, banale, ma al contempo speciale!

Come sarebbe un mondo senza amore? Il piccolo Momo ci mostra l’immensità di questo sentimento accompagnando la sua madame fino al confine con la morte.

È questo il messaggio che ci consegna e che alla fine portiamo con noi.

Sofia Scuderi, Daniele Monaco, Pietro Rossi

I due gemelli veneziani

a cura di quarta B, Liceo Artistico Arcangeli, Bologna
(coordinamento prof. Marco Ruggeri)

Recensione
Verona e Venezia, Zanetto e Tonino: due città, due personalità, che condividono lo stesso palcoscenico e la stessa vicenda. In quale altro modo può chiudersi questa vicenda se non con la morte?

L’inevitabile fine di uno dei due fratelli viene svelata sin dall’apertura del sipario. Inizia così I due gemelli veneziani di Carlo Goldoni diretto da Valter Malosti, andato in scena giovedì 17 febbraio all’Arena del sole di Bologna.

Un inizio che è dunque anche una fine, da rimanerne sbigottiti. Da quel momento comincia un viaggio nel tempo e nello spazio per raccontare quali peripezie, intrighi amorosi e scambi familiari hanno portato ad una così estrema conclusione. Il rimbombo delle voci, l’eco dei microfoni e l’abile uso delle luci avvolgono lo spettatore in un’atmosfera sospesa e inquietante. Un crocevia di eventi sconvolgenti che porteranno a scoprire lati e verità nascoste davanti ai quali non si potrà che rimanere incollati alla poltrona.

Ma torniamo all’apertura del sipario e a quello che ci ha colpito di questo allestimento.
L’atmosfera è cupa, un fascio di luce illumina il cadavere di Zanetto mentre Pulcinella ci parla con voce risonante e ovattata e gesticola danzando. Nello spettacolo si alternano tanti personaggi così come vari elementi di scenografia: l’ambiente interno è rappresentato da un tavolo con frutta e un candelabro mentre l’esterno è costituito da grandi monoliti neri che, uniti alle luci soffuse, simboleggiano le vie strette di una città metafisica. Anche i vestiti non sono troppo connotati: né attualizzati, né dell’età goldoniana quasi a testimoniare una sospensione del tempo. Marco Foschi interpreta egregiamente entrambi i gemelli, che si differenziano per personalità, voce e fisicità: Zanetto indossa una giacca azzurra, è goffo e ha una voce timida e balbettante, Tonino invece è vestito di rosso, più furbo, sicuro di sé, con un atteggiamento combattivo quando è messo in gioco il suo onore.

La vicenda comica ruota proprio intorno a questo contrasto di caratteri, che genera una serie di ilari equivoci. Ma il ruolo di questi due personaggi non è soltanto da commedia. La figura dei gemelli all’interno di storie e racconti ha da sempre simboleggiato la dualità dell’uomo: ognuno di noi ha un lato irrazionale e istintivo, guidato dai sentimenti e dall’apparenza e uno più razionale e logico, capace di elaborare delle soluzioni ai problemi attraverso deduzioni e ragionamenti.

La versione di Malosti de I gemelli attribuisce un ruolo centrale anche alle due figure femminili: Rosaura e Beatrice. Intorno a loro avvengono infatti violenti contrasti che coinvolgono i rispettivi pretendenti: l’ingenuo ma buffo Zanetto contro l’astuto e vecchio Pancrazio; Florindo, ricco, e Lelio, dall’animo nobile ma dal portafoglio vuoto.

Ritornare a teatro, dopo una così lunga pausa, e veder messo in scena questo lavoro di Goldoni, ci ha permesso di vedere nuovamente rappresentata la vita e di apprezzarne le contraddizioni, la complessità, gli esiti alterni della fortuna come a ricomporre, in unico quadro, la tragicommedia umana.

Museo Pasolini

a cura di Classe 3Ci, Istituto Odone Belluzzi Fioravanti, Bologna
(coordinamento prof.ssa Maria Letizia Cotti)

Recensione
Ascanio Celestini durante lo spettacolo non ha recitato un copione a memoria  ma, come ha raccontato lui stesso in un’intervista, aveva in mente una scaletta fatta di immagini, con la quale ha dato vita alla vicenda di Pasolini, approfondendone incontri, legami e non solo. Lo spettacolo infatti spaziava sul contesto storico e sociale del tempo, intrecciando il vissuto  personale dell’artista con quello più ampio della storia del Novecento. Questa narrazione fluviale in alcuni punti ci lasciava quasi smarriti, forse anche perché siamo anagraficamente lontani dagli eventi raccontati, ma verso la fine della visita al museo Celestini è riuscito comunque a collegare tutti  i fili di questa storia intricata. Per una strana coincidenza Pasolini nasce nel 1922, anno della marcia su Roma e della conseguente ascesa al potere di Mussolini, lui che farà scelte politiche opposte e avrà un fratello partigiano. Cinque sono stati gli oggetti presi come simbolo del sommario della vita di Pasolini in parallelo alla storia del secolo.

Nel Museo immaginato da Ascanio Celestini il primo oggetto significativo è il cimitero di Casarsa del Friuli, che si configura come una sorta di album di famiglia dell’artista, nel quale lui stesso è presente, per poi passare alla sua prima poesia scritta all’età di 7 anni, momento in cui nasce la scoperta del potere che può avere la parola poetica. Si procede poi con “l’innocenza del PCI piegata e messa via come una bandiera in un cassetto”, terzo oggetto presentato, e poi passare alla borsa contenente la bomba inesplosa destinata alla strage di Piazza Fontana, per terminare con il quinto e ultimo oggetto, ovvero il corpo straziato del poeta ritrovato all’Idroscalo di Ostia il 2 Novembre del 1975, per l’aggressione da parte di un giovane diciassettenne (venne percosso con un bastone di legno per poi essere investito ripetutamente con la sua macchina).

La nostra Bologna è stata la città nella quale Pasolini è nato, ha studiato e ha trascorso la giovinezza, prima del trasferimento a Roma. Abbiamo imparato anche che il fratello è stato un partigiano, il padre un militare allineato con il fascismo e la madre un punto di riferimento essenziale durante tutta la vita del poeta. Pasolini è stato un professore, poeta, regista e drammaturgo, era un comunista seppur espulso dal PCI. Amava la condivisione con la vita del popolo, degli emarginati, della verità della periferia romana: ogni giorno prendeva il treno per andare ad insegnare a Ciampino e, da lì, poteva osservare con attenzione ogni angolo della città, ad esempio le baracche e gli edifici fascisti, e durante lo spettacolo Celestini ha narrato le vicende di cui Pasolini è stato protagonista, in parallelo alle tante sfumature sulla storia d’Italia, e dei suoi misteri irrisolti.

L’attore ha scelto un incedere rapido perché doveva rispettare il tempo della storia e, avendo la scaletta in mente, non ha potuto rallentare forse per non rischiare di perdere il filo del discorso o l’attenzione del pubblico, in uno spettacolo che tiene gli spettatori avvinti alla narrazione per più di due ore. Celestini ha interpretato diversi personaggi con molta professionalità e con il solo utilizzo delle sue abilità attoriali, tanto che a volte abbiamo potuto immaginare quelle persone come se guardassimo un film o come se fossero proprio davanti a noi. Si tratta della magia del teatro: lo spettatore si dimentica per un attimo che Celestini sta recitando sul palco e gli sembra di vedere una persona vera, che sta vivendo quelle emozioni, non limitandosi a fingere di essere un personaggio ma diventando quel personaggio.

The Nest

a cura di 2BLB, Liceo Giordano Bruno, Budrio (BO)
(coordinamento prof.ssa Valeria Negroni)

Recensione
It is up to all of us: ora sta a noi.
The Nest di Dellavalle/Petris visto da una classe di sedicenni.

Il protagonista, un uomo sulla trentina, è seduto su un divano, ci guarda mentre prendiamo posto in sala, suscitando un misto di angoscia, tristezza, timore. Nella sala riecheggiano voci di persone intervistate: confusione e incomprensione serpeggiano in sala. “The Nest – Il Nido” della compagnia Dellavalle/Petris inizia con una frase pronunciata da Leonardo Di Caprio in un celebre discorso sul cambiamento climatico: “It is up to all of us” (dipende da tutti noi), l’attore hollywoodiano ci invita a porci domande: che cosa possiamo davvero fare per ridurre l’inquinamento e tutti i problemi legati all’ambiente?  Una voce registrata incalza: compri spesso online? Compri spesso oggetti usati? Paghi con la carta o con i contanti?.

Il ritmo e lo scorrere del tempo sono dilatati forse per permettere agli spettatori di comprendere meglio le domande, provando a cercare una possibile risposta. Intanto il tempo in sala passa così come lo scorrere delle stagioni della narrazione: i protagonisti dello spettacolo, Kurt e Martha sono in attesa di un figlio.  Nel corso dello spettacolo vengono proiettate interviste parallele ad altre giovani coppie che ci fanno riflettere su come percepiscano il futuro. Problemi economici e preoccupazioni si affastellano e ci fanno pensare a come affronteremo noi simili questioni quando sarà ora. La scelta di microfonare gli attori permette agli spettatori di sentire anche le frasi sussurrate, percependo così anche le emozioni e gli stati d’animo sottili, respiri e toni delicati. Fondamentali per la riuscita dello spettacolo anche i rumori come ad esempio quando la moglie definisce il marito “scimmia ammaestrata “ (perché ha agito senza pensare, guidato solo da un ordine del proprio capo che con tutta probabilità lo ha portato ad agire contro la legge) si sente il forte rumore della caduta della parete sul fondo: la famiglia si sta disgregando, è successo qualcosa di orrendo. Ecco che si insinua la duplice questione legata alla responsabilità collettiva e alla responsabilità personale: la “scimmia ammaestrata” agisce senza pensare con la propria testa, si lascia convincere a fare quell’atto per qualche soldo in più.  Il fatto di non interrogarsi su ciò che è chiamato a compiere è un nodo che arriva al pettine e che regala al protagonista la possibilità di affrontare con coraggio l’autodenuncia e la denuncia del proprio superiore, pur consapevole che avrebbe potuto perdere il lavoro.

Lo spettacolo procede per quadri e temi, giustapponendo la complessità che si viene a creare quasi fosse un domino. Ogni azione si sussegue all’altra e diventa compito dello spettatore trovargli un ordine.

Il finale dello spettacolo è aperto e sta allo spettatore dare la propria interpretazione. Dopo vari momenti di tensione e dopo la caduta della parete che simboleggia la rottura della famiglia, i due la rialzano in segno di riavvicinamento, ricostruzione.  Durante l’ultima scena dello spettacolo, il marito prende il microfono per parlare in proscenio, lo spettatore è trafitto, non ha scampo: è costretto a riflettere sullo spettacolo e a porsi delle domande su problemi che potrebbero capitare a tutti.  Come si reagisce in situazioni di stress? come si riesce ad andare avanti dopo un grave errore commesso? quali soluzioni si potrebbero adottare? Tanti interrogativi, innumerevoli possibili risposte.

 

Pescheria Giacalone e figli

a cura di classe 3°B Ciofs-FP/ER Jacopo della Quercia

Recensione
Lo spettacolo Pescheria Giacalone e figli
Fuori dalla trappola tra voglia e desiderio

Pesce fresco è un esclamazione silenziosa che non risuona più all’interno della pescheria Giacalone e figli.

Questa pescheria siciliana è stata ereditata da Alice e Salvo i due figli di Giacalone padre, ma solo Salvo (Luca Iacono) se ne occupa con scarsi risultati.

Non è un bravo venditore perché vende il pesce di qualche giorno ai clienti nuovi, quello fresco lo vende ai clienti abituali per farsi una buona reputazione. La sua gestione della pescheria lascia un po’ a desiderare perché oltre al rapporto particolare con la clientela, si scopre che non paga le tasse essendo in ristrettezze economiche.

La sorella Alice, interpretata da Barbara Giordano, è la protagonista dello spettacolo, anche se il titolo non la rappresenta e non le rende giustizia, perché non ha un ruolo nella gestione della pescheria. Scrive su un blog e desidera lavorare per il corriere della sera e trasferirsi a Milano, ma sta con i piedi per terra, accontentandosi di fare la bibliotecaria. Lei è soggiogata dalla madre che approfittando della sua finta invalidità la tiene sotto controllo. Alice è intrappolata tra la gestione della casa e il lavoro, con una madre che la tiene al guinzaglio, sotto una campana di vetro.

Questo spettacolo parla di una famiglia, una famiglia che ha diversi problemi, come tutte e alcune scene sembrano prese dalle nostre vite mentre altre ci suonano provenienti da un passato prossimo, tanto che ci chiediamo quando è ambientato lo spettacolo. L’appartamento sembra senza tempo, la scena è fatta di mobili antiquati e le tende sono sempre tirate. L’unica ventata di novità sembra portata da Marco (Andrea Narsi), il neurologo che viene da Milano, anche là problemi e un ambiente da cui scappare. Inizialmente entra in casa Giacalone proprio come medico ma curando la madre e confrontandosi con Salvo ne respira la stessa aria chiusa e gli stessi pensieri compiendo una parabola discendente che lo allontanerà da Alice.

Un dramma familiare, quindi, ma un dramma travestito da commedia e non si risparmiano davvero le risate che stemperano le difficoltà che incombono sulla pescheria e i suoi figli.

Una madre, una bravissima Luana Toscano, che per quanto opprimente entra silenziosamente in scena sulla sua carrozzina, accompagnata spesso e volentieri da siparietti comici, che scaturiscono soprattutto dalle incomprensioni comunicative con i figli. La lingua saetta tra gli attori regalando una composizione musicale che intreccia l’accento siciliano con i silenzi prima imbarazzati, poi carichi di significato che si scatenano nel piccolo appartamento. Così piccolo che l’unico rifugio per Alice è il bagno che, con pareti invisibili, prende forma sul palcoscenico grazie al mobilio e agli attori e alle attrici che lo attraversano, prima ufficio, poi luogo sicuro e spazio di incontro e di ascolto. Alice fugge all’inizio, poi scappa, citando una dicotomia che emerge nello spettacolo, scappa per emanciparsi, per crescere e per trovare la sua strada tra voglia e desiderio. 

Rosario Lisma che ha curato il testo e la regia ci conduce insieme ad Alice, che è giusto ricordare da figlia di pescivendolo prende il nome dalle alici, pesci migratori, in un percorso tortuoso dove gli affetti familiari a volte pesano e i sogni sembrano ostacoli, ma per mettersi in cammino basta spalancare le tende e uscire dalla porta.

 

Storia di un'amicizia

a cura di classe 3GLI, ITC Mattei, San Lazzaro di Savena (BO)
(coordinamento prof.ssa Daniela Zani)

Recensione
Il mistero di un’amicizia portato in scena da Fanny&Alexander

Due attrici sul palco, una rigida come una bambola, l’altra più viva. In uno spazio privo di scenografia, l’immaginazione è il fulcro di tutto.
Iniziamo a sprofondare nella Storia di un’amicizia messo in scena dalla compagnia Fanny & Alexander che abbiamo visto all’Arena del Sole.
Le voci delle due donne perennemente in movimento si sovrappongono in un turbinio di frammenti della storia dell’infanzia delle protagoniste. Sul palcoscenico sono riportate le vicende di due bambine poi diventate adulte e del loro tormentato rapporto di amicizia. Gli spettatori sono turbati dalla gestualità delle due attrici: le braccia, le gambe, il corpo si muovono talvolta in modo fluido, per un’attrice, talvolta meccanicamente, per l’altra. La partitura corporea è ripetitiva e reiterata per l’intera opera, un’ossessione. Questi gesti non ci appaiono del tutto chiari: siamo chiamati a tentate di trovarvi un significato?.
Gesticolano tanto, gesticolano sempre, perché? È la rappresentazione del tipico rione napoletano? Hanno lo scopo di descrivere la confusione della folla nel quartiere in cui si svolgono i fatti? Vogliono trasmettere il frastuono delle emozioni, dei sentimenti, dei pensieri delle due ragazze? A un certo punto rischiamo di perderci, la separazione tra le due sfuma una nell’altra diventando interscambiabili e poco definite. Potrebbe sembrare intrigante e affascinante questo abbandono, ma non sempre siamo riusciti a goderne la portata misteriosa. Anche la narrazione slitta, scivola, siamo spaesati. Si susseguono i fatti, si intrecciano le parole, i piani si confondono, le personalità ci confondono. Chi cerca una limpidezza cristallina non la troverà, bisogna solo provare ad abbandonarsi a quell’incubo, a quell’ignoto.
Due bambine salgono una lunga, angusta e cupa scalinata in un impeto di coraggio tormentate però da una paura viscerale. Paura e terrore sono esattamente le emozioni portanti dell’opera. Lo spettacolo provoca sgomento e inquietudine. Le attrici fanno trasparire una sensazione di malessere e dolore che accompagnano lo spettatore per tutti e tre gli atti. Si tratta del dolore e della sofferenza, così come dello spavento che caratterizzano le protagoniste.
Nel secondo atto vengono rappresentate diverse tematiche, da un lato l’evoluzione sia delle bambine ormai divenute donne che devono affrontare i problemi del mondo degli adulti, dall’altro l’evoluzione del loro rapporto. Questo distacco causa nello spettatore un cambiamento: ci ha colpito molto la modalità con la quale sono stati introdotti nuovi personaggi all’interno della scena impersonati dalle stesse attrici che interpretavano le due protagoniste. Inoltre l’evoluzione del rapporto tra le due che non in tutti i momenti della loro vita sembra essere un’amicizia sana e sincera. Questo rapporto morboso e burrascoso porta verso la fine a domandarsi a proposito della natura della loro relazione: quando ci si può dire veramente amici?

 

a cura di 5AL Liceo Leonardo da Vinci, Casalecchio di Reno
(coordinamento prof. Francesco Genovesi)

Recensione
La crudeltà dell’amore cieco. Le domande di Berti su come guardiamo al mondo.

“Ma secondo te che desiderio è il desiderio di un corpo legato?”.
Così si apre lo spettacolo “Blind Love”, scritto dal drammaturgo Alessandro Berti co-protagonista in scena insieme a Rosanna Sparapano.
Diretto. Crudo. Privo di filtri.
Ecco tre aggettivi per descrivere questo spettacolo sicuramente coinvolgente e più di tutto  realista e spiazzante.
Pensato e realizzato come ultimo capitolo della trilogia “Bugie Bianche”, lo spettacolo è ambientato in una camera da letto pallida, piena di libri, vuota d’amore.

Una giovane coppia anonima, lui bianco, lei nera, si ritrova chiusa in una singola e statica stanza, fuori dal tempo, a interrogarsi attraverso un flusso di rapidi scambi battuta-risposta sulla pornografia, sui rapporti misti, sulle conseguenze del nostro passato colonialista.

Ciò che salta all’occhio è il rapporto dei protagonisti con lo spazio: i due attori sono collocati su piani diversi. Se lui, nel ruolo dell’altolocato quanto saccente uomo bianco, sembra non muoversi quasi mai (se non quando la discussione, da parte sua, si accende), lei invece pare essere più dinamica, come se l’argomento la coinvolgesse maggiormente.

Come se la loro disposizione spaziale riflettesse un diverso coinvolgimento dei due personaggi: il personaggio femminile, più sensibile al tema della disuguaglianza etnica, anche fisicamente è “morsa” dall’argomento, lui invece, non risentendo direttamente della questione, si pone con un atteggiamento più distaccato, distante.

Un altro elemento chiave del rapporto tra la coppia è quello del loro sguardo: durante tutta la rappresentazione, i loro occhi non si incrociano mai.

I due corpi restano lontani, il loro amore un ricordo.

Alessandro Berti è riuscito a rappresentare ciò che meno è rappresentabile in teatro (come in qualsiasi altra rappresentazione artistica): l’incomunicabilità, specie se problematica. Il tema cardine su cui ci piace soffermarci è lo sguardo: uno sguardo volto a una ricerca introspettiva e reciproca tra i due. 

Attraverso un dialogo colto e dinamico i due affrontano le proprie diversità, in maniera diretta e «senza peli sulla lingua». Al rapporto tra uomo e donna, sempre misterioso e a tratti potenzialmente ostico, si unisce la differenza etnica tra i due. 

Lo scontro, tuttavia, non si ferma al solo colore della pelle, ma va ben oltre: entrambi i corpi, quello nero e quello bianco, sono portatori di una storia, al tempo stesso biografica e collettiva. Ciononostante è necessario riconoscere che il passato della comunità nera abbia affrontato molte più criticità rispetto a quello della comunità bianca.  Per questo motivo, durante tutto lo spettacolo, vi è maggiore coinvolgimento emotivo da parte della ragazza, che a più riprese ricorda fatti storici determinanti nella biografia della sua comunità, come la tratta degli schiavi e la “feticizzazione” della donna nera nell’immaginario pornografico.  In conclusione, il dialogo intimo tra i due protagonisti  si sofferma su tematiche controverse, che in coppia come nella società, danno luogo a possibili conflitti.