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Teatro in classe

Torna il percorso che accompagna i ragazzi delle Scuole Secondarie di Secondo Grado a teatro.
Dieci spettacoli della stagione di Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale per altrettante classi di diversi istituti: gli studenti e le studentesse avranno l’opportunità di trasformarsi per un giorno in “critici teatrali” restituendo ai lettori del nostro sito la loro
esperienza teatrale.
A guidare il loro sguardo sarà la redazione di Altre Velocità con un laboratorio di due incontri di due ore ciascuno: attraverso dialoghi, brevi racconti teorici ed esercizi, l’obiettivo è l’avvicinamento alle arti sceniche per comprenderne i linguaggi, i temi e le domande che pongono al giovane spettatore.
L’esperienza del laboratorio Teatro in classe culmina con il termine della stagione quando una giuria di esperti premierà le migliori recensioni scritte dai ragazzi, le quali saranno pubblicate sul sito dell’Arena del Sole.

Recensioni

La tempesta

a cura di Classe 2K gc, Istituto Aldini Valeriani, Bologna
(coordinamento prof. Giacomo Tinelli )

Recensione
La tempesta dell’immaginazione

Rumori di tempesta, voci tutto attorno allo spettatore. Si alza il sipario e c’è una figura sdraiata, che pare un cadavere e che invece si alza lentamente e inizia a compiere movimenti irruenti ma fluidi, come se si dimenasse impaurita sott’acqua. Un telo blu, sopra di lei, che rappresenta la superficie del mare, viene trapassato improvvisamente da luci: i fulmini della tempesta. Poi, per coinvolgere lo spettatore e trasportarlo nella seconda scena, un fumo denso cala sul palco, giocando con le luci a creare un effetto ottico che fa percepire la tridimensionalità dello spazio. Questo è l’esordio de La tempesta di Shakespeare messa in scena da Alessandro Serra.

La scenografia è in sé semplice, ma viene trasformata dall’immaginazione: una pedana diventa, anche grazie alle luci, l’isola sulla quale Prospero e la figlia Miranda aspettano, per vendicarsi o perdonare, gli usurpatori del ducato di Milano. Una sola asse di legno serve a comporre diverse scene dello spettacolo: viene usata come oggetto scenico nel dialogo tra Miranda e Ferdinando; oppure, in un’altra scena con Triculo, Caliban e Stefano, l’asse è posta in verticale e Caliban, ubriaco, vi si aggrappa.

Rispetto al testo di Shakespeare, la messa in scena di Serra concede importanza anche ai personaggi secondari, che qui hanno una grande presenza scenica. Come nel caso di Trinculo, Calliban e Stefano, che, con i loro gesti e la loro dizione (parlano in napoletano), creano un effetto di commedia che stupisce lo spettatore.

Nonostante alcuni brani, come quelli citati, dal tono comico, il grande tema di questo spettacolo è il contrasto tra la vendetta e il perdono, che alla fine vengono a coincidere. Prospero, infatti, riesce a perdonare suo fratello e tutti i “napoletani”, anche se solo dopo la minaccia della solitudine: Miranda si sposa con Ferdinando e Ariel sarà presto libero.

Accabadora

a cura di Classe 5N, Liceo Scientifico E. Fermi, Bologna
(coordinamento prof.ssa Cristina Girardi)

Accabadora: un legame oltre la morte
Accabadora
è il titolo del romanzo di Michela Murgia da cui è tratto questo spettacolo. La regia è di Veronica Cruciani e la drammaturgia di Carlotta Corradi. Unica attrice sul palco è una poliedrica Anna Della Rosa, superba nel dare forma ed espressione a una realtà remota dell’entroterra sardo con le sue superstizioni e tradizioni. La vediamo comparire sulla scena nei panni di Maria, figlia dell’anima che racconta le proprie esperienze sul letto di morte della madre adottiva, Bonaria Urrai. Racconta senza soluzione di continuità episodi recenti e lontani, della nuova vita a Torino, dell’adolescenza, dell’infanzia; incasella ricordi tristi e gioiosi, ma a poco a poco le immagini si offuscano e il racconto entra nelle pieghe della riflessione, si insinua nella sua coscienza e diventa percorso di scoperta e trasformazione.

Quando la maestra chiedeva a Maria di rappresentare la sua famiglia, la bambina non disegnava nè sua madre nè le sue sorelle; disegnava una enorme e generosa gonna nera e, dentro, se stessa e Tzia Bonaria, la donna che l’aveva accolta con amore e rispetto. Il nero che le avvolgeva era l’abito di Bonaria Urrai, nero come la notte, come il lutto. Con quell’abito Bonaria non mostrava il dolore, ma lo copriva. E non copriva solo il proprio dolore, copriva e soffocava anche il dolore degli altri. L’abito di Tzia Bonaria è infatti l’abito nero dell’“accabadora”, ovvero di colei che, nella lingua sarda, uccide i moribondi per porre fine alle loro pene.

L’evoluzione di Maria, sulla scena, è scandita da un progressivo cambio di abbigliamento, passando da linee giovanili e moderne all’eleganza tradizionale e luttuosa dell’accabadora. La drammaturgia definisce un crescendo, intensificato dall’alone di mistero che copre la figura di Bonaria, e definisce a poco a poco il rapporto materno tra le due donne. La narrazione non segue un ordine cronologico, ma lo spettatore ricompone per gradi la storia di madre e figlia. La scelta di trasporre il romanzo in un racconto in prima persona è senza dubbio vincente; aiuta a immedesimarsi meglio nella drammaticità della storia. La narrazione è supportata da un buon comparto sonoro, anche se a volte troppo didascalico con effetti artificiosi. All’inizio l’uso del microfono può provocare un effetto innaturale, ma ci si adatta facilmente. Una scelta rischiosa che riesce tuttavia a ripagare in termini emozionali è l’utilizzo di un brano teckno per accompagnare la Spannung. La scenografia è povera ma perfettamente funzionale. Interessanti inoltre gli effetti sullo sfondo, che creano tridimensionalità e maggiore empatia. I respiri pesanti e le pulsazioni delle immagini sullo schermo rendono ancora più viva e concreta la storia.

Anna Della Rosa si dimostra un’attrice politonica, capace di un’interpretazione enfatica che non rinuncia a realismo e delicatezza. Modula gli accenti con sicurezza, senza cadere nella caricatura: racconta l’esperienza a Torino con accento piemontese e quelle in terra natia in sardo; esprime le sfumature emotive distintamente, con cambi di intensità e di timbro. I movimenti sono ben studiati, forse troppo: risultano in una prima fase un po’ meccanici e si arricchiscono di movimenti più liberi nell’ultima evoluzione di Maria. Quando, alla fine, Della Rosa interpreta Bonaria, le movenze si riducono al minimo offrendo il ritratto di una figura statica e ieratica. Su questa figura si chiude lo spettacolo, su un’atmosfera che Anna Della Rosa avrà trasformato in spazio sacro.

Edoardo Dani
Andrei Gira
Francesco Rossi
Tommaso Tirapani
Anna Zappoli

 

 

Per Magia

a cura di Classe 4P, Liceo Scientifico E. Fermi, Bologna
(coordinamento prof.ssa Cristina Girardi)

Per Magia: tra autobiografia e metateatro
Lo spettacolo Per Magia, diretto da Elena Bucci e interpretato insieme ad Angela Malfitano, è in scena dal 24 al 29 gennaio presso l’Arena del Sole di Bologna. L’opera è un viaggio attraverso molteplici storie, anche autobiografiche, con cui le interpreti ripercorrono le tappe più importanti legate al loro avvicinamento al mondo del teatro. Già il titolo presenta l’espediente narrativo attraverso il quale si sviluppa la trama: le due autrici attraversano, come “per magia”, i loro ricordi. Ma l’autobiografia è presto superata.
Quando tutto ha inizio, due figure incappucciate compaiono in un antro buio, al riparo dalla pioggia. Poi qualcosa va in frantumi, si ode il brusio di una bolla di vetro sottile che scoppia. Dove siamo? Dove il tempo non esiste: dove non saremo raggiungibili, lontano dal rumore del mondo scalpitante e aggressivo. Siamo nel sicuro e potente teatro della memoria; lo scavo interiore può aver luogo. A condurre la ricerca della Malfitano, che indossa un abito da sera verde, è la più eccentrica Bucci, vestita con abiti cangianti di velluto viola e un cappello stravagante. Scandisce le scene una domanda ricorrente: “Dove mi trovo?”. In una foresta, in Romagna, in famiglia, in provincia, al liceo, e poi ancora nella grande città, in una scuola di recitazione, tra i grandi maestri, a teatro e finalmente sulla scena. Il teatro è, in questo spettacolo, punto di partenza e punto di arrivo. Il teatro è un luogo sicuro per scrutarsi dentro e recuperare anche ciò che sembra caduto nell’oblio. Quante immagini tornano a galla, quante voci si riaffastellano e ci ricadono addosso: rimproveri, giudizi, consigli, umiliazioni, incoraggiamenti, ferite e illuminazioni. Sono parole di altri, dette spesso senza volerlo, ma archiviate per sempre nella nostra memoria.
La scenografia è spoglia ma polifunzionale: due sedie, due bicchieri, un tavolino. Due sole attrici sulla scena: due donne. Recitano dialogando in un contrappunto di suoni, canzoni, luci, danze leggere, talvolta argute e ironiche. La drammaturgia gestuale è attentamente studiata per segnare ogni volta l’ingresso in un nuovo ricordo, quando gesti eccentrici, astratti, sembrano impossessarsi delle attrici o quando le vediamo come nuotare, sospese tra realtà e fantasia. Il ritmo della narrazione è scandito sapientemente anche dal linguaggio sonoro. La Romagna emerge spesso come sostrato linguistico e musicale, tra inflessioni e vere e proprie canzoni popolari come “Romagna mia”.
Tuttavia, non c’è solo l’autobiografia; lo spettacolo si apre in realtà alla riflessione civile. “Per magia” nasconde infatti anche una grande denuncia, potente quanto gentile e raffinata: ci apre gli occhi sul contemporaneo che ci travolge, sul significato dell’esser donne in una società sessista, che è tale a volte anche senza volerlo, sull’importanza salvifica del teatro, che abbatte le barriere sociali. Il teatro è la roccaforte del nostro tempo, è una delle poche esperienze che oggi consentono di disconnettersi dal mondo, per togliere la “vigliaccheria del vivere” (Leo De Berardinis). Leggendo Agostino abbiamo imparato a pensare la memoria come un grande teatro. Oggi, del teatro abbiamo assoluto bisogno perché la cripta della nostra soggettività si possa ancora esplorare. Se il teatro va in fumo, se le piattaforme digitali vincono su tutto ciò che non è riproducibile, finirà la magia. Senza volerlo…
Grazie a questo spettacolo, tuttavia, la magia resterà nel cuore, come dopo un buon rito di iniziazione.

Anna Babini, Filippo Bertozzi, Carlo Alberto Brunelli, Arturo Dalbagno, Irene Digiulio, Pietro Fabrizio,
Guo Yi Ma, Giulia Motterle, Nicolò Serraino, Sarah Tallerico, Sara Trambaiolo, Riccardo Vecchi, Sofia Villa

 

 

Pilade

a cura di classe 5BLB Liceo scientifico dell’I.I.S. “G.Bruno”, Budrio (Bo)
(coordinamento prof.ssa Valeria Negroni)

Recensione
Si spengono le luci, la sala piomba nel buio più totale. Un rimbombo continuo rompe il silenzio facendosi sempre più intenso. Tutto a un tratto entra in scena dalla sala il primo personaggio, la voce del popolo, che con un occhio di bue illumina il sipario che si sta aprendo. A primo impatto il palco mostra uno scenario post-apocalittico. Gomme, auto, roulotte abbandonate e malridotte ci proiettano in un parcheggio disperso. L’ambientazione,
pervasa dal fumo, dà un senso di inquietudine e incertezza. Non si riesce a comprendere cosa accadrà, ma i segnali portano a pensare che sarà qualcosa di rivoluzionario.
Il passaggio da una scena all’altra viene evidenziato attraverso proiezioni di spighe, foglie, campi, arbusti sul fondale del teatro. Quest’ultimo è scorticato, ossia è messo a nudo per dare tridimensionalità alla scena. La mobilità dei personaggi diminuisce man mano che si allontanano dalla platea, infatti mentre i protagonisti in primo piano muovendosi riempiono la scena, i personaggi sullo sfondo sono immobili.
Il clima di angoscia è amplificato dal tappeto sonoro di sottofondo che continua, ininterrotto, ad accompagnare la recitazione. Nell’ambito del sonoro, bisogna citare anche l’utilizzo della voce da parte degli attori, i quali hanno saputo alzare o abbassare magistralmente il loro tono a seconda della scena. La regista ha attuato un gioco di luci notevole, facendo sì che l’attenzione degli spettatori si concentrasse sul personaggio protagonista della scena o del monologo; ciò non significa però che l’atmosfera fosse luminosa, anzi era molto buia e quasi lugubre. Le poche luci soffuse, inizialmente fredde, sfumano dai toni più caldi a quelli più freddi in base alla situazione evocata. Sono quest’ultime a rivelarci i personaggi in scena.
Gli attori, provenienti da varie estrazioni sociali, portano in scena la loro diversità. Il coro e le Eumenidi sono rappresentate da corpi transessuali; gli abitanti della montagna sono impersonificati da persone di colore. I costumi sono moderni e appartengono allo stile di strada, un esempio di ciò sono il bomber indossato dal coro e la tuta del ragazzo. Tutti, però, presentano un particolare che li contraddistingue e che dona carattere al personaggio: Elettra porta dei fiori che quasi la coprono completamente, le Eumenidi hanno uno stile molto giovanile, Oreste e Pilade sono gli unici ad indossare lo smoking. Oreste entra in scena, dopo che un personaggio del coro porta il microfono, e parla alla platea come se fosse ad un comizio politico, lo capiamo anche dal vestiario elegante. La sua voce è piuttosto forte e appare decisa nelle prime scene, ma sul finire dello spettacolo la sua sicurezza svanisce: balbetta come se fosse in soggezione, soprattutto durante il colloquio finale con Atena, in cui si nota la subalternanza tra la dea e l’essere umano.
Invece Elettra, sorella di Oreste, si presenta sulla scena con un bouquet di fiori talmente grande che quasi la nasconde; è in lutto, infatti ha un aspetto trasandato, un’espressione abbattuta e la voce strozzata, quasi come se avesse pianto poco prima. Nella tragedia Elettra simboleggia il passato; probabilmente Pasolini, se pensiamo ad un’attualizzazione nella società moderna, l’accostava alle correnti neofasciste che stavano riemergendo negli anni ‘60. L’altro protagonista è Pilade, da cui trae il nome l’opera teatrale; egli è molto simile ad Oreste, sembra quasi che lo voglia imitare.

Contrariamente all’amico, Pilade risulta molto insicuro inizialmente nell’esporsi, per poi divenire più sicuro. Egli rappresenta la diversità, l’irrazionalità e la resistenza a certi rigurgiti neofascisti. Pilade è anche dubbio, incertezza, fragilità ma soprattutto inadeguatezza rispetto al contesto circostante. È un personaggio ricco di contraddizioni, l’esempio più evidente è quello del bacio con Elettra, colei che rappresenta l’opposto delle sue convinzioni. Pilade è una figura emblematica poiché indubbiamente è l’incarnazione di Pasolini, ovvero l’intellettuale che non sente di appartenere alla società.
Per quanto riguarda il coro, esso è interpretato da due personaggi: un ragazzino e una giovane donna, che intervengono tra i monologhi dei protagonisti. Il ragazzo ha un tic nervoso che pare sottolineare lo stato di impazienza nei confronti del progresso e allo stesso tempo lo squilibrio di un popolo che cede al primo uomo carismatico; anche questa scelta scenografica può essere considerata come una critica nei confronti del progresso.
Il personaggio di Atena fa un’entrata teatrale, già questo aspetto delinea il suo carattere; dall’abbigliamento e dalle calzature, si nota il suo atteggiamento di superiorità, non a caso si distingue dagli altri perché è una dea. Lo spettacolo deve chiaramente essere letto in chiave moderna, come ci suggerisce l’ambientazione, i costumi e la scelta dei personaggi, d’altronde ci sono innumerevoli riferimenti all’epoca contemporanea a Pasolini e al secondo dopoguerra. Viene indagato pure il tema politico, il messaggio implicito riguarda la democrazia: è sempre la scelta giusta?

Ciò che noi abbiamo percepito è un senso di vuoto causato dall’incapacità di ogni tipo di governo di rappresentare i cittadini nella loro diversità e nelle loro necessità. Infatti quando Oreste rientra ad Argo, porta una nuova forma di potere, una democrazia utopica e razionalistica che però si rivela impraticabile nella realtà in quanto nel loro insieme tutti i cittadini sono diversi e di conseguenza non si sentono pienamente rappresentati. Si sente portatore di un governo altamente democratico ma in realtà esclude chi non reputa all’altezza: i miserabili, i poveri e i contadini. Inoltre affinché si affermi il suo ideale di politica è costretto a scendere a patti con Elettra, che incarna le forze conservatrici, legate al passato. Di fatto quindi proclama una democrazia che però non è realmente considerabile tale: in questo possiamo ritrovarci la democrazia italiana degli anni di Pasolini, che non considera né ascolta i diversi e che dà spazio solo alla borghesia e ad un solo partito, la Democrazia cristiana.

La diversità esclusa, presente sia in epoca antica che contemporanea, è rappresentata da Pilade, che diventa un punto di riferimento per coloro che non vogliono omologarsi alle idee di Oreste. Egli infatti punta ad una rivoluzione che cambi la società ma ciò non viene realizzato perché perde l’appoggio dei suoi stessi sostenitori. si crea così, a causa del progresso, una società di massa che segue un ideale unico, un imperativo di consumo, escludendo elementi di diversità tra cui lo stesso Pilade. Se prima il popolo aveva accettato la sua distinzione, in quanto la sua diversità era ciò che aveva stabilito chi fosse, ora invece a causa di essa dà “scandalo”.
Ma può esistere una forma di governo che sia in grado di rappresentare realmente tutti i cittadini?

Il tango dalle capinere

a cura di classe 4P , Liceo Scientifico E. Fermi, Bologna
(coordinamento prof.ssa Cristina Giradi)

Tango delle capinere. Il ballo dell’amore che perdura.
Due bauli e due attori.

Una anziana coppia con abitudini, tic, acciacchi, affanni, intimità e ricordi condivisi. Cumuli di eventi stratificati, su due corpi appesantiti dagli anni e dalla vecchiaia, e di oggetti, custoditi nel segreto di vecchi bauli, scalfiti in superficie dal tempo. La storia dei due protagonisti si riavvolge a ritroso sulle note di un carillon e a partire da un bacio coraggioso, raggiunto a fatica attraverso movimenti legnosi e presto abortito da colpi di tosse e asma.

Ma cos’è questo slancio di amore, che ha tratti grotteschi, tra infermi? Non è la fiamma dell’innamoramento, non è la passione del colpo di fulmine, eppure è amore: quello più autentico perché realistico, quello più solido perché maturo, rinsaldato da una vita di gesti ripetuti, di azioni ricorrenti, di esperienze di coppia. È l’amore della lunga durata, quello che ha più da raccontare e che scoppietta a ritmo di anniversari sul sottofondo sonoro di petardi, trombette, esplosione di rumori quotidiani. È anche, però, lo spazio dell’intimità silenziosa, dove non c’è bisogno neppure di chiamarsi per nome e dove entriamo come voyeurs. La grande sfida sarà per noi quella di decifrare il linguaggio corporeo più che verbale, mentre sotto un cielo stellato e in una luce soffusa si illumina la vita passata della coppia.

Svestendosi strato dopo strato, e svuotando un po’ alla volta i bauli dei ricordi, i due anziani ballano la loro storia d’amore coniugale. Ogni indumento rimosso li avvicina sempre più alla giovinezza: la gestualità e le movenze diventano progressivamente più rapide, fluide e ritmiche e, per salti temporali, si arriva finalmente al primo incontro, al matrimonio, al tempo delle attrazioni, dei tuffi nell’ignoto, dei corpi ancora sconosciuti, dei sogni e dei grandi ideali.

Mentre musica e canzoni liberano le emozioni imprigionate nei bauli, gli oggetti lì custoditi si spargono sul palco, che viene alla fine lasciato in disordine, disseminato dai souvenir che la vita ha donato ai due e dai costumi indossati nelle numerose e più variegate vicende della loro esistenza. Quella confusione è allegoria del disordine di ogni vita mortale, affidata sì al caso ma tenuta insieme dalla possibilità di raccontare le storie condivise, uniche e al tempo stesso universali: quando i bauli, svuotati del tutto, fagociteranno come tombe i due corpi separati dalla morte, gli oggetti sopravvissuti sul palco deserto parleranno ad altri di presenze passate.

Con potente maestria, e grazie alla sapiente recitazione di Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco, Emma Dante dedica ai suoi genitori uno spettacolo che, al di là dei richiami autobiografici alla sua terra, parla a tutti della vita condivisa, ovvero di un amore scandito a ritmo di due quarti, che ha nel tango la sua chiave di violino. Si svela così il senso del titolo: come le capinere davanti a due innamorati segnano l’inizio dell’amore ma davanti al letto di morte annunciano la dipartita estrema, così il tango delle capinere è la danza melodiosa e malinconica di due amanti che si accompagnano verso la fine.

Le vacanze

A cura di classe 3B, Liceo Fermi, Bologna

(Coordinamento Prof.ssa Daniela Salcoacci)

Tu da che parte stai?

Due diciottenni, Tom e Lao, dialogano annoiati in un torrido pomeriggio d’estate, immersi in due pozze d’acqua fangose circondate da un folto bambuseto.
Così inizia lo spettacolo “Le Vacanze” portato in scena da Alessandro Berti. Già da subito, però, ci accorgiamo che non si tratta del racconto di un classico pomeriggio tra amici.
Infatti il caldo, nell’aridità di quello che una volta era il canneto di un giardino fiorito, è opprimente: la calura impedisce di interagire, respirare, persino vivere. Ogni azione richiede un grande sforzo, che Tom e Lao non si possono permettere di affrontare.
Questa suggestione scenografica circonda noi spettatori in una vera e propria esperienza multisensoriale: sentiamo il soffio del vento, l’odore della terra, scorgiamo il fumo degli incendi che dilagano. Volenti o nolenti, veniamo coinvolti nella fiacchezza dei due amici e nel loro tentativo, in tutti i modi, ma soprattutto attraverso i ricordi di un passato per sempre perduto, di evadere da una realtà opprimente. Così siamo avvolti anche dalla monotonia che caratterizza questa “vacanza”, che però ben presto sarà movimentata dall’annuncio dell’imminente arrivo del performer, affittato da Lao nella speranza di rendere più interessante quel pomeriggio afoso. La notizia non entusiasma Tom, ma anzi suscita in lui inquietudine e timore, scatenando un’animata e improvvisa discussione tra i due ragazzi, che si interrogano sulla realtà che li circonda e sui tanti cambiamenti avvenuti in pochi anni. Lao, figlio di scienziati, si è presto adattato ed ha accettato i necessari adeguamenti e le risorse che la scienza mette in campo per provare a promuovere il benessere dell’uomo in un mondo non più adeguato; Tom, cresciuto attraverso un’infanzia piena di viaggi ed esperienze culturali, è ancorato al passato e non accetta di iniziare a “sopravvivere” a soli diciotto anni.
Da parte sua, il performer, questa sorta di danzatore apparso nella notte dal bambuseto, con i suoi movimenti lentissimi e privo di parole, interroga soprattutto noi spettatori: chi è o cosa rappresenta? Forse la sofferenza e la fragilità dell’uomo in un mondo non più adatto a lui? La natura, priva di forze e costretta a piegarsi all’inesorabile incedere dell’Antropocene? Oppure simboleggia l’arte stessa, che porta avanti l’immagine straziante di questi orribili cambiamenti, davanti a noi, inermi spettatori? Questi interrogativi scuotono e animano la platea anche quando il vento bollente incalza e le luci della scena si fanno rosso fuoco, per poi spegnersi sul bambuseto, sul performer e su Lao e Tom sfiniti a terra, a fine spettacolo.
Chiamati, o meglio, provocati ad una reazione attiva, ci chiediamo se ci sentiamo più Lao o più Tom: vogliamo prendere in mano la nostra vita e alimentare quel piccolo barlume di speranza rimasto, o soffocarlo per sempre come fanno gli incendi con le foreste, limitandoci a distogliere lo sguardo di fronte ad un futuro così drammatico?
Ma soprattutto, questo futuro è pura fantascienza o magari è già talmente radicato nella nostra realtà da sottovalutarlo e farlo sembrare normale?
Queste sono le domande che Alessandro Berti ci ha posto, con la speranza che in qualche modo scatti in noi una scintilla, un tentativo di dare un significato ad eventi surreali e distopici, forse poi non così tanto lontani nel tempo e nell’immaginario, come alcuni di noi possono essere portati a pensare.
Anna Cortesi, Leonardo Marin, Anna Medici, Chiara Sabina Rizzoli (classe 3a B Liceo Fermi)

Lazarus

a cura di Classe 4D, Liceo Scientifico E. Fermi, Bologna
(coordinamento prof.ssa Camilla Spina)

Perplessità e mistero. Non ci sono aggettivi migliori per descrivere il lascito musicale di David Bowie, Lazarus, opera rock teatrale, affidata nella versione italiana alla regia di Valter Malosti. Già il titolo lascia interdetti: potrebbe richiamare il personaggio biblico di Lazzaro, simbolo per antonomasia del confine tra vita e morte? D’altronde lo stesso protagonista, l’extraterrestre Newton, è bloccato tra l’impossibilità di morire e l’incapacità di vivere, perché ancorato ai rimpianti del passato, dalla fine della relazione con l’amata Mary-Lou. Sono allucinazioni quelle che vede e con cui dialoga? Proiezioni di una mente malata incapace ormai di generare alcuna speranza? Ce lo chiediamo fino alla fine dello spettacolo. 

Il successo del musical in Italia è stato immediato, grazie in parte alla presenza di figure quali Manuel Agnelli, frontman degli Afterhours, nel ruolo di Newton, e Casadilego, vincitrice di X Factor Italia 2020, interprete della giovane Marley, senza dubbio uno dei personaggi più ambigui del musical-teatrale.

Nello spettacolo, infatti, la musica esercita un ruolo fondamentale, sia dal punto di vista narrativo che emotivo. L’orchestra dal vivo, disposta ai lati del palcoscenico, contribuisce attivamente al filone narrativo creando un’atmosfera magica. Provenendo da entrambi i lati del palco l’effetto stereofonico avvolge l’intera scena.

Poiché l’opera è stata scritta e voluta dallo stesso David Bowie, i suoi testi e le sue melodie hanno un ruolo da protagonisti. Le canzoni costituiscono parte integrante della trama, sono complementari ai dialoghi. Vista e udito sono contemporaneamente coinvolti dalle armonie e da numerosi stimoli visivi.

Una pedana rotante, una poltrona, bottiglie di gin e un teschio: questi sono alcuni dei pochi oggetti che compongono il primo piano della scena. La pedana potrebbe allegoricamente simboleggiare l’impossibilità di lasciare la terra da parte del protagonista o il non poter fuggire dai suoi pensieri.

Parte integrante della scenografia sono cinque schermi che proiettano immagini e luci durante le varie canzoni. Questi sono inclinati rispetto a un “box” sopraelevato collegato al palco attraverso una porta dietro o dentro la quale il protagonista a volte sparisce, che cosa separa? Presente e passato? Sicuramente una sorta di dimensione alternativa a quella che vediamo, ed è proprio perché non vi è un’unica interpretazione possibile che lo spettacolo è così stimolante.

I personaggi principali rappresentano emozioni, stati d’animo differenti tra loro, espressi tramite i dialoghi e il linguaggio del corpo.

L’alieno Newton, “esiliato” sulla terra e abbandonato a se stesso, sembra aver perso ormai ogni gioia di vivere. A livello scenico ciò è restituito dalla brevità e scarsità delle sue battute, dalla sua immobilità nella maggior parte delle coreografie, a differenza degli altri attori i cui movimenti risultano talvolta esagerati.

Elly, altro personaggio eclettico, ha una doppia personalità, da una parte è la moglie-oggetto di Zach in cerca della sua nuova vita; dall’altro è la domestica di Newton di cui si è innamorata e per cui impazzisce a tal punto da credere di essere “posseduta” da May-Lou.

Notiamo questo cambiamento di personalità dai suoi movimenti inusuali, scattanti, quasi meccanici e sofferenti durante le coreografie, al ritmo di Changes, dal suo voler somigliare sempre di più all’amata da Newton e dalle sue parole, attraverso le quali  sul finale traspare più che mai la sua fragilità.

Marley è la ragazza adolescente frutto dell’immaginazione di Newton le cui sembianze ricordano sia Mary-Lou che la figlia morta sul pianeta natio, solo nel finale ne viene svelata l’identità e la storia. La giovane ragazza inconsapevole rappresenta la speranza di Newton un tempo persa ma poi, forse, ritrovata. Infine, Valentine, personaggio enigmatico, può essere interpretato al contempo sia come un alter ego dello stesso Newton che una rappresentazione della morte.

L’accessibilità dello spettacolo è, pertanto, dubbia: complessa è l’interpretazione del finale, cogliere il valore simbolico dei personaggi, distinguere tra realtà e illusioni del protagonista.

I diversi stimoli sensoriali, come la musica e la coreografia, aiutano lo spettatore a mettere insieme i pezzi della propria riflessione, per quanto gli sia richiesta particolare attenzione e un’attiva partecipazione per seguire il succedersi degli eventi in scena. Nonostante ciò, più che concentrarsi sui numerosi dettagli della rappresentazione, lo spettatore viene inevitabilmente coinvolto nell’inclusivo spirito dell’opera.